Il Colosseo come è oggi

Belve del Colosseo

Alessandro Giuli

Rivivere il l'anfiteatro com’era ai tempi di Tito Flavio Vespasiano: poco probabile, o anche sì, a patto che riaprano le porte ai leoni. Fascinosa è l’immagine del monumento che torna alla vecchia destinazione d’uso. Paracula, la proposta di Franceschini, perché al passo coi tempi nuovi e renziani.

Rivivere il Colosseo com’era ai tempi di Tito Flavio Vespasiano: poco probabile, o anche sì, a patto che riaprano le porte ai leoni. La mia amica Nicoletta Tiliacos è entusiasta e sta facendo voti affinché nell’arena sia subito spedito il sindaco Ignazio Marino (“non è una proposta, è un desiderio”), tipo l’imperatore Commodo nel film “Il Gladiatore”, immagino, ma lei eccede in ottimismo. Detto questo, l’archeoidea sponsorizzata dal ministro Dario Franceschini ha un suo fascino ed è al tempo stesso una grande paraculata.

 

Fascinosa è l’immagine del Colosseo che torna alla vecchia destinazione d’uso, sottratto al suo dolente destino di millenario “molare cariato” – è la poeticissima descrizione di Elena Albertini nei suoi diari – e riabilitato come luogo di memoria e intrattenimento; se poi fosse pure un modo per risparmiarci la via crucis annuale, tanto più di guadagnato. Paracula, la proposta di Franceschini, perché al passo coi tempi nuovi e renziani: obbedisce al clima di fruizione sbarazzina dell’esistente che si irradia dai così detti luoghi della decisione, fino a rivestire d’inconsueta attualità la formula sfibrata del panem et circenses.

 

[**Video_box_2**]Se davvero i sotterranei dell’Anfiteatro Flavio verranno ricoperti da una pavimentazione minima, in modo da ripristinare una specie di arena, il monumento non tornerà quello delle origini e smetterà d’essere l’attuale simulacro. Sarà il ready made mondiale di una strana Italia sospesa tra il crepuscolo e un carnevale di provincia, incorniciata dal tuìt di un titolare del Mibac come Franceschini (“basta un po’ di coraggio”), la cui equazione personale vale come sintesi estrema del nostro paesaggio di scintille d’oro e rovine: un sepolcro arrossato della fu Dc, Franceschini, riconvertito nottetempo al renzismo e oggi padroncino della Cultura orgogliosamente estraneo alla lotta interna al Pd – lui che ne capeggia la corrente meglio rappresentata in Parlamento –, un romanziere che viene dalla città degli Este e pubblica con Gallimard ma pronuncia la lettera elle come una bigotta mondina transpadana che litighi ogni giorno con le consonanti velari retroflesse. E’ di fronte a questa Italia che il benecomunista Salvatore Settis, combattente emerito sul fronte della salvaguardia storico-paesaggistico-ambientale, si è già detto pregiudizialmente contrario all’affare Colosseo? Perché di affare, appunto, sembra trattarsi. La cosa convince invece emeriti archeologi come Andrea Carandini e Adriano La Regina. E forse piacerebbe anche all’imperatore Adriano, che al tempo del suo principato si mostrò insofferente agli spettacoli di sangue e oggi, potendo, si godrebbe volentieri una lettura ovidiana di Vittorio Sermonti lì dove un tempo furoreggiavano fiere e gladiatori e navi rostrate.

 

C’è infine un aspetto non banale eppure così trascurato nell’allegrezza delle nostre dispute feroci: i quattrini per la riconversione chi ce li mette, lo stesso coi braccialetti sonanti cui l’ineffabile ex sindaco Gianni Alemanno affidò il restauro sciué sciué dell’Anfiteatro? Una modesta proposta ci sarebbe: i soldi si possono ottenere con una sforbiciatina ai circa 6 miliardi di euri che ci sta costando la Metro C di Roma; oppure ai 13 milioni in stipendi (fonte Corsera di ieri) spesi da Roma Metropolitane, società comunale incaricata di sovrintendere alla sciagurata opera. Se Franceschini davvero ci riuscisse, per quanto ci riguarda, nel Colosseo potrebbe anche ricavare una piscina pubblica ovvero prenderci casa e scriverci sopra “parva sed apta mihi”, come fece il concittadino Ariosto con la sua dimora di Ferrara: piccola ma adatta a me. I soldi per la targa glieli regalo io.

 

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