Il sud sta fermo sul cuore della sua terra, ed è subito crollo demografico

Roberto Volpi

La Svimez si accorge con ritardo che sono anni che i più bassi livelli di fecondità femminile si hanno tutti in regioni del sud d’Italia: Sardegna, Basilicata, Molise in particolare. Ma anche la Campania staziona ormai a metà nella classifica della fecondità. Ecco perché.

E’ ora di prendere in considerazione qualche altra variabile, se vogliamo capirci qualcosa nella crisi, che sembra irreversibile, del sud. Più morti che nascite? La Svimez si accorge con ritardo che sono anni che i più bassi livelli di fecondità femminile si hanno tutti in regioni del sud d’Italia: Sardegna, Basilicata, Molise in particolare. Ma la stessa Campania staziona ormai a metà nella classifica della fecondità. Colpa soltanto degli immigrati che sono al nord, e che dunque incidono in positivo, con la loro maggiore natalità, al nord piuttosto che al sud? Questo fattore c’è, è evidente. Ma sono le stesse donne italiane del mezzogiorno che da tempo registrano una fecondità in continua contrazione. Mentre questa tendenza si è quantomeno attenuata al nord.

 

E per una tendenza acquisita, eccone un’altra – non di minor conto, anzi, anche se del tutto trascurata – che si conferma e viene pienamente allo scoperto coi dati dell’ultimo censimento. Il sud è pieno solo di meridionali. Bella scoperta, si dirà. E invece è proprio una bella scoperta, perché non è detto affatto che una terra sia abitata pressoché esclusivamente da chi ci è nato sopra. Ed è invece proprio questo che succede al sud. Ma non al nord. E in questa differenza si può leggere, in filigrana, perché il sud è il sud e il nord è il nord. E non si tratta di una tautologia. Si tratta di realtà. Di 100 abitanti nel mezzogiorno 51, qualcosa più della metà, sono nati nello stesso comune dove risiedono, 91 nella stessa regione. Consideriamo questo elemento: l’età media della popolazione del sud è di 42 anni, cosicché si può dire che mediamente di 100 persone di 42 anni nate in un dato comune 51 ancora vi abitano e di 100 di quell’età nate in una data regione 91 ancora sono lì.

 

Insomma, il mezzogiorno è dei meridionali, indiscutibilmente. Questo non vuol dire che da quelle regioni quanti vi sono nati non se ne vanno. Piuttosto che non ne entrano di provenienti da altre parti. E questo è il guaio. Guardiamo agli stessi indicatori calcolati per il nord-ovest. Di 100 abitanti di quest’area solo 27 sono nati nei comuni dove risiedono, mentre delle regioni di quest’area solo 69-70 sono nati in queste stesse regioni. Le differenze sono così marcate che non hanno bisogno di commenti.

 

[**Video_box_2**]Non siamo alle stesse cose, dette e risapute. Perché la questione è spietatamente questa: nel sud non c’è sufficiente rinnovamento di energie, di mentalità, di caratteri. Nel sud c’è un ricambio del tutto endogamico – che appunto per questo è poco ricambio e molto ristagno – di energie e potenzialità. Tutto si gioca all’interno di comunità date, tutto si esaurisce lungo direttrici storico-evolutive più o meno prestabilite, tutto è espresso nelle generazioni che qui nascono, vivono, muoiono. Quello che non si dice mai in questo tempo di grandi chiacchiere sui melting pot, gli incroci delle varietà umane, i flussi migratori che travolgono ogni resistenza, i matrimoni e le coppie tra persone di diversa nazionalità e quelli/e di uguale sesso, e insomma, di mischiamenti fuori dai canoni e pure, almeno in parte, dalle previsioni, quello che proprio ci si dimentica di dire è che il mezzogiorno è pressoché immune da tutto questo, nel mezzogiorno tutto o quasi si svolge, si decide, si consuma “in casa”, tra giocatori che da lì vengono, da casa.

 

E’ il luogo della casa, il mezzogiorno. Ma non nell’accezione tanto abusata. Non in quella, vale a dire, dei legami e degli affetti ma in quella della consuetudine, del prolungamento nel tempo fino alla sclerotizzazione dei processi economico-sociali e culturali-politici che vi si svolgono con modalità tali da respingere piuttosto che da attrarre altri da altre latitudini. Assume un’aria stantia, alla luce di questi dati, anche la proverbiale “apertura” dei meridionali. Saranno pure aperti, singolarmente considerati, il dramma è che quelle terre sono diventate, giacché non lo erano, chiuse socialmente ed economicamente. Ed è questo ciò che conta di più, non la simpatia del singolo meridionale, la sua estroversione, la sua capacità di entrare in sintonia con chi pure si incontra per la prima volta. Quella capacità non si incardina, sfugge, si volatilizza. E’ quotidiana e contingente, e lì si esplica, nella quotidianità, nella contingenza. Non risolve, non si rivela decisiva. Non alla lunga.

 

E non c’è film o romanzo più o meno ruffiano sul tema che può cambiare le cose. L’apertura che conta, quella delle regioni e dei comuni, delle università, delle associazioni e delle istituzioni, dei centri di potere più o meno influenti, quella non c’è proprio. Quella è nelle casseforti dei nativi, rinserrata tra caste e cordate, consorterie e mafie, tra familismi e nepotismi d’ogni conio che lì nascono e si radicano. Mentre ben più dell’altra proprio quell’apertura sarebbe decisiva per tirare fuori il sud dalla minorità, l’arretratezza, il conservatorismo e diciamo pure il feudalesimo del sud. Perché i numeri che ho citato all’inizio, se vogliamo dirla tutta, sono da società feudali, più che moderne.