Sindacati e governo riuniti prima dell'approvazione del jobs act (foto LaPresse)

Per un nuovo sindacato

Marianna Rizzini

C’è quel guardarsi in cagnesco dagli antipodi (stazione Leopolda, piazza San Giovanni). Quel vestire l’abito del cattivo a turno, incessantemente, nello stesso spettacolo fisso in cartellone, manco fosse “Trappola per topi”, la pièce immutabile recitata a rotazione sui palcoscenici di Londra.

C’è quel guardarsi in cagnesco dagli antipodi (stazione Leopolda, piazza San Giovanni). Quel vestire l’abito del cattivo a turno, incessantemente, nello stesso spettacolo fisso in cartellone, manco fosse “Trappola per topi”, la pièce immutabile recitata a rotazione sui palcoscenici di Londra. C’è quel guardarsi dagli antipodi, governo rottamatore contro sindacato impermeabile al tempo. E ci sono quelle due immagini, all’apparenza non collegabili direttamente, una vera e una (per ora) immaginata negli ambienti renziani. Da un lato la “smart rebellion” dei ragazzi ungheresi contro la tassa sul web voluta dal governo di Viktor Orbán, giovani che di notte su un ponte di Budapest seguono non una bandiera rossa né un vessillo arcobaleno, ma la luce fioca di un telefonino – migliaia di telefonini come accendini a un concerto, un serpentone convocato su Facebook e sospeso sul Danubio, strabordante oltre il parapetto, ai confini del buio, per chiedere che nessun fiorino, moneta ungherese, scorra al consumo dei gigabyte. Dall’altro lato il pensiero dell’isola che (ancora) non c’è, uno “smart-sindacato” che, in Italia, rappresenti i non rappresentati: giovani, precari semplici, outsider, precari tecnologici (gemelli ideali dei ragazzi della notte ungherese), gente di sinistra che ha introiettato l’idea di un mondo cambiato. Mondo in cui i partiti sono morti e risorti sotto altra forma e sotto altro nome, mescolandosi, perdendo pezzi, fondendosi, ricreandosi. Mondo moderno fatto di realtà e non di retorica, con il lavoro da garantire in altro modo, categoria per categoria, magari individuo per individuo, lottando per l’aumento dei salari. Senza concertazione, senza inamovibile impalcatura giuridica.

 

L’idea è circolata, in questi giorni, nei giri del Pd di area Leopolda: dare vita a una nuova creatura veloce, snella, capace di arrivare a discutere di lavoro azienda per azienda, con modalità e ritmi impensabili ai tempi dei burosauri sindacali non ancora estinti. “Sindacato dei giovani e degli outsider”, la suggestione c’è. Anche se, a livello emerso, gli esperti del settore la prendono alla lontana. C’è chi parla di “associazione”, chi di “nuova legislazione”, chi di “rifondazione”. Dice il professore giuslavorista Pietro Ichino, eletto al Senato con Scelta civica (ma guardato per ispirazione dal mondo renziano): “Il termine sindacato ha un significato preciso: quello di una coalizione di lavoratori capace di realizzare e incarnare un monopolio dell’offerta di manodopera, da contrapporre a un monopolio della domanda, per riequilibrare il potere contrattuale tra le parti. Se questa è la nozione, parlare di un ‘sindacato dei giovani’ o degli ‘outsider’ mi sembra inappropriato e fonte di equivoci”. Ichino suggerisce a quelli che ci stanno pensando “di usare un lessico corrispondente a un’idea sostanzialmente diversa: quella di una associazione dei lavoratori di nuova generazione che si proponga di promuovere una legislazione del lavoro non sbilanciata a sostegno quasi esclusivo degli insider (come è la nostra attuale), un mercato del lavoro fluido e innervato da servizi efficienti svolti dalle agenzie specializzate capaci di svolgerli, e soprattutto un regime di vera contendibilità di tutte le funzioni, in ogni struttura pubblica e privata, nel quadro di un sistema dedicato a rendere effettiva la parità delle opportunità per tutti i cittadini”. Ma questo sembra a Ichino il programma “di un’associazione ben conosciuta nel nostro sistema costituzionale, che si chiama ‘partito’: forse stiamo parlando di quel nuovo ‘polo della riforma europea dell’Italia’, che in questi mesi si sta faticosamente costruendo?”. Michele Magno, invece, ex sindacalista Cgil e studioso di rapporti partiti-sindacato, applicherebbe al sindacato la ricetta applicata da Renzi al Pd, primarie aperte comprese. Dice infatti Magno che “in Italia c’è bisogno, più che di un nuovo sindacato, di un sindacato nuovo. Bisogna rifondare quello esistente. Renzi ha già aperto la sfida alle burocrazie confederali (rottamando la concertazione) dall’esterno. Ora deve portarla al loro interno, mettendo in discussione la titolarità a contrattare per tutti di chi rappresenta solo una minoranza delle maestranze occupate, dei giovani precari, dei senza lavoro, delle alte professionalità”. Come road map, Magno vedrebbe “una legge sulla democrazia sindacale, primarie per la scelta dei gruppi dirigenti del sindacato aperte ai non iscritti, rinnovo periodico delle deleghe, separazione della rappresentanza dei pensionati da quella dei lavoratori attivi (com’è in diverse realtà d’Europa). Inoltre: salario minimo, centralità del contratto aziendale per più salario e più produttività”.

 

[**Video_box_2**]Rompere lo schema obbligato: unica strada per un governo rottamatore. Ma come spezzare il sortilegio del ruolo che risucchia nel gorgo della quiete apparente prima del nuovo scontro di mentalità (ancor più che di mondi) dell’8 novembre, giorno dell’annunciato sciopero generale Fiom? Soltanto apparente, infatti, è parsa ieri la tregua tra il premier Matteo Renzi e il segretario Fiom Maurizio Landini, dopo il “chiarimento” governo-sindacati sugli scontri tra forze dell’ordine e operai di Terni del giorno precedente, con Landini che vedeva nel governo la volontà di risolvere i problemi e Renzi che assicurava “verifiche e atti conseguenti” al sindacato medesimo, mentre il segretario Cgil Susanna Camusso, la donna che descrive il premier come “messo lì” dai “poteri forti” (questo ha dichiarato in un’intervista a Repubblica), intimava al governo di “abbassare i manganelli”. Nello scontro di mentalità, i segnali si rincorrono. Alcuni scorgono nella comparsa del manganello chissà quale torbido indizio anti sindacato (indizio che segue le parole del finanziere renziano Davide Serra, che alla Leopolda ha parlato di “limitazione” al diritto di sciopero. Poi però si scopre, sulla Stampa di ieri, che lo dice pure la Spd tedesca). “Guarda caso, tre giorni dopo…”, ha detto ieri l’esponente della minoranza dem Davide Zoggia sul Corriere. Altri ci leggono un opposto indizio anti Renzi: “Proprio ora… non è che qualcuno punta alla spallata?”, è il succo del retroscena di Repubblica.
Guardarsi dagli antipodi e continuare a restarci, agli antipodi, anche dopo le telefonate segrete e smentite (tra Landini e il premier), e gli sms segreti e non smentiti (sempre tra Landini e il premier). Ogni parola è materia incandescente, acqua in ebollizione che minaccia di buttare all’aria il coperchio del pentolone. E se il primo incontro governo-sindacati, a inizio ottobre, era parso a Susanna Camusso offensivo (Renzi ci ha ricevuti “sul ballatoio”, per pochissimo tempo, ha detto, intonando “un’ora sola ti vorrei”), l’ultimo incontro governo-sindacati, due giorni fa, dopo la Leopolda e dopo piazza San Giovanni, agli occhi di Camusso è apparso ancora più oltraggioso: i ministri che ci hanno ricevuto non avevano “mandato” a parlare di nulla, ha detto, e tutti hanno guardato la foto dei ministri muti e rilassati e di Camusso muta e accigliata (“incontro surreale”, ha detto lei; “incontro andato benissimo”, ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan).

 

Due lessici, incessante clangore di spade: l’eurodeputata pd Pina Picierno adombra truppe cammellate ed elezioni sindacali gonfiate (poi ridimensionando la portata della dichiarazione fatta ad “Agorà”), e per Camusso è come il fazzoletto rosso sventolato davanti al toro. Renzi espressione di universi bancari e misteriosi potentati nell’ombra, ha detto allora.

 

In attesa che la road map del nuovo sindacato venga disegnata ufficialmente, dall’ambiente Leopolda filtra interesse per qualcosa che proietti la lotta sindacale nella modernità. “Nuova marcia”, dice l’imprenditore Oscar Farinetti (patron di Eataly), convinto che “anche un capo del sindacato debba avere la levatura del manager per negoziare con le aziende sulla base di conoscenze profonde dei cambiamenti in atto”, anche in tema “di retribuzione”, tenendo presente “che proprietari e lavoratori hanno pari dignità”. Farinetti vede in Landini un possibile leader di “un nuovo movimento”, che però non è il sindacato dei giovani e degli outsider di cui si parla negli ambienti renziani (il deputato Davide Faraone, interpellato in proposito, dice che servirebbe piuttosto il sindacato unico. E che però i sindacati esistenti, intanto, “dovrebbero cominciare a fare autocritica, proprio come hanno fatto i partiti”).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.