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Due euro is meglio che one

“Alla fine sarà Berlino a uscire dall’euro”. Un autorevole leak

Marco Valerio Lo Prete

L’euro come lo conosciamo oggi potrebbe non esserci più tra qualche mese o al massimo entro un paio d’anni. Non perché decideremo di uscirne noi italiani. Ma perché l’euro – così com’è oggi – non sarà più ritenuto sostenibile in Germania.

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Roma. L’euro come lo conosciamo oggi potrebbe non esserci più tra qualche mese o al massimo entro un paio d’anni. Non perché decideremo di uscirne noi italiani, sempre più indebitati e ancora alla ricerca di un sentiero di crescita sostenibile e duratura. Ma perché l’euro – così com’è oggi – non sarà più ritenuto sostenibile in Germania, cioè nel paese in cui tutto è sembrato girare finora per il verso giusto, anche grazie alla moneta unica. Sarà Berlino ad abbandonare questo euro, per ragioni politiche prim’ancora che economiche, trascinando con sé un manipolo di paesi nordici consenzienti. L’Italia, più che tornare alla lira o a un’altra valuta nazionale, farà parte di una sorta di “euro 2”, assieme ad altri paesi cosiddetti “periferici”, forse perfino la Francia. E non sarà necessariamente un dramma.

 

Tale ragionamento, che pure a livello accademico qualcuno aveva già ipotizzato negli anni che hanno seguìto lo scoppio della crisi, il Foglio lo ha sentito formulare in queste ore da parte di un esponente di primo piano della finanza italiana. Anzi, di primissimo piano. Una personalità lontana dalla politica e che per indole e formazione non si diverte a impressionare l’interlocutore con qualche boutade ad effetto. Ad adiuvandum, ecco cosa scrive l’Economist in edicola nel suo editoriale di apertura, intitolato “Il più grande problema economico del pianeta”, cioè l’Eurozona che sta per ammalarsi di deflazione e che, secondo il settimanale, è “sull’orlo della terza recessione in sei anni”: “Con il debito di Italia e Grecia che continuerà a crescere, gli investitori si prenderanno uno spavento, i politici populisti guadagneranno terreno e – più prima che poi – l’euro collasserà”. “Più prima che poi”, quindi, perché “il tempo a disposizione dei leader europei sta finendo”. Anche per questo, all’indomani della pubblicazione dei risultati degli stress test della Banca centrale europea sugli istituti di credito che ieri hanno depresso le Borse del Vecchio continente, abbiamo chiesto ad alcuni osservatori di ragionare a caldo sull’ipotesi di una scissione dell’euro per iniziativa di Berlino, ovviamente riservandosi in futuro di discutere delle necessarie tecnicalità che pure non sarebbero di poco conto.

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“Nella situazione attuale, un’uscita della Germania dall’euro sarebbe almeno in astratto la soluzione migliore”, dice al Foglio Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago che ne ha anche scritto nel suo ultimo libro, “Europa o no” (Rizzoli). “Un’uscita dall’euro che avvenisse ‘dall’alto’ – dice Zingales – sarebbe innanzitutto molto più gestibile rispetto a un’uscita di un paese come l’Italia. Perché è più facile tenere la gente fuori che tenerla dentro”. Si spieghi. “L’euro dei paesi nordici, che io chiamo ‘neuro’ – dice Zingales con un filo di ironia – sarebbe destinato a rivalutarsi rispetto a un euro del Club med. Di conseguenza, i cittadini tedeschi non avrebbero nessuna ragione di fuggire dai propri istituti di credito, come invece farebbero i correntisti italiani nel caso di un ritorno alla lira che sarebbe per forza di cose svalutata massicciamente e che potrebbe indurre una crisi bancaria generalizzata, con annesse prospettive di default. Ci sarebbe piuttosto una corsa di tutti gli altri europei a depositare i soldi nelle banche tedesche per beneficiare della rivalutazione che i depositi subirebbero dopo la separazione. Il governo tedesco, avendo tutto l’interesse a limitare questo processo di ‘marchizzazione’, o trasformazione in marchi, dei depositi, si attrezzerebbe per limitare l’afflusso. Alla fine italiani e spagnoli se ne farebbero una ragione”. Con il debito pubblico monstre dell’Italia si rischierebbe però l’apocalisse: “Nient’affatto. Non ci sarebbe automaticamente un default. L’euro-sud, o euro 2, si svaluterebbe certo rispetto al dollaro e anche rispetto al ‘neuro’. Ma questo ci consentirebbe almeno in un primo momento di tornare più competitivi, senza passare per un lungo processo deflattivo come quello che si annuncia”. Soprattutto i contraccolpi per il debito pubblico sarebbero limitati o addirittura nulli perché il rischio inflazione, o “rischio argentino”, sarebbe mitigato rispetto all’ipotesi di uscita solitaria di un paese mediterraneo: “L’uscita dall’euro, se messa in atto dai soli primi della classe, non consentirebbe automaticamente all’Italia di stampare moneta ad libitum e per qualsiasi futura esigenza di politica fiscale, come qualcuno vorrebbe. Questo rispetto ai mercati internazionali offrirebbe una forma di garanzia”. Le necessarie riforme per rilanciare la competitività delle economie periferiche non potranno essere rimandate per sempre; si tratterebbe soltanto di riguadagnare un’ultima chance di portarle a termine. “Una Banca centrale europea, limitata al solo Club Med, rimarrebbe comunque in piedi e operativa. Nell’interesse dei paesi rimasti, funzionerebbe come una struttura seria ma non più eccessivamente rigida come è invece oggi per ragioni politiche”.

 

Perfino a Berlino potrebbe convenire una seperazione consensuale e ordinata, piuttosto che il colpo di testa (obbligato) di un solo grande paese, sostiene Domenico Lombardi, responsabile del programma economico del think tank canadese Cigi: “Rispetto allo scenario anarchico e incontrollabile creato dalla svalutazione unilaterale delle economie più deboli, in questo scenario la Germania cercherebbe di conservare il minimo di disciplina richiesto per il funzionamento del mercato unico, agevolando l’aggregazione delle economie ‘meno veloci’ in una nuova sotto-area monetaria. Rispetto a quest’ultima, cercherebbe comnque di imporre una sua disciplina, pur meno stringente, perché essa potrebbe svalutare ma in modo coordinato con la nuova area del marco”. Lombardi, che comunque allo stato attuale vede come preponderanti i benefici dello status quo per l’economia tedesca, dice che nell’ipotesi di una fuoriuscita dall’alto Berlino rimuoverebbe, almeno parzialmente, “la deriva deflazionistica che pesa sull’attuale configurazione dell’Eurozona, imbrigliando allo stesso tempo le economie meno ‘disciplinate’, ma non al punto da comprimerne la dinamica propulsiva, in tal modo salvaguardando importanti mercati di sbocco per il suo export dai quali dipende la capacità del proprio sistema manifatturiero di beneficiare di economie di scala sufficienti a competere anche su mercati terzi”. In via teorica, dunque, l’abbandono della Germania “sarebbe una soluzione utile per una ragione di fondo”, dice Antonio Pilati, consigliere della Rai e osservatore di scenari geopolitici, autore del libro “Europa, sovranità dimezzata” (Ibl Libri): “Oggi la moneta unica comprende economie troppo differenziate tra loro, e oltre un decennio di disciplina comune non ha fatto che accrescere queste differenze. Avere due aree valutarie invece che una porterebbe a una razionalizzazione del sistema con due aree più omogenee al loro interno”.

 

Sulla fattibilità economica di questo storico divorzio consensuale, tutti gli analisti interpellati dal Foglio si riservano di ragionare più a lungo. Soprattutto, nessuno si sogna di poter stimare alla perfezione cosa accadrebbe durante una simile “transizione”. Ma accettando di stare alla domanda posta dal Foglio – e dando seguito allo spunto fornito dall’autorevole esponente della comunità finanziaria italiana – i nostri interlocutori ragionano sulla fattibilità politica del tutto. Quale potrebbe essere, innanzitutto, la molla che spinge Berlino ad abbandonare la moneta unica? Certo, i segnali di una frenata dell’economia tedesca si susseguono da mesi: ancora ieri l’Ifo, l’indice che misura la fiducia degli imprenditori, si è attestato a 103,2, in flessione da settembre e con un dato inferiore alle attese. E’ pure vero che il governo di Angela Merkel ha tagliato le stime di crescita del pil per l’anno in corso, a più 1,2 per cento dal più 1,8 stimato in precedenza. Tuttavia il paese gode ancora di vantaggi robusti garantiti dallo status quo: dai costi di finanziamento del debito pubblico contenuti come mai prima, alla relativa debolezza del cambio dell’euro che non sarebbe giustificata dalla sua potenza esportatrice. Ma tentiamo di spingere lo sguardo ancora più in là, dal domani contingente all’avvenire possibile. “Una quota crescente dell’opinione pubblica tedesca in Germania vuole perseguire l’abbandono dell’euro da parte di Berlino – osserva Pilati – Il partito Alternative für Deutschland propone esattamente questo, e i suoi consensi sono saliti: dal 5 per cento delle elezioni federali nel settembre 2013 al 7 per cento delle elezioni europee nel maggio scorso, fino a risultati anche maggiori in alcune successive elezioni regionali. Non si tratta di un partito populista, raccoglie il voto di liberali e conservatori classici. Ma parliamo ancora di una minoranza, ovvio, anche perché il mainstream merkeliano per il momento può schierare tra le sue ragioni i grandi benefici che l’economia tedesca trae dallo status quo”.

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[**Video_box_2**]Sempre più spesso, però, la politica nazionale subisce repentine evoluzioni anche in rapporto a quanto accade fuori dai confini e specialmente in ambito europeo. “Una possibile fuoriuscita dall’euro, intesa come iniziativa unilaterale della Germania, è concepibile in uno scenario in cui la capacità della cancelliera Merkel di equilibrare le spinte centrifughe del suo elettorato venisse erosa dalla mancata convergenza di alcune grandi economie dell’euro sul percorso riformista tracciato dal suo esecutivo”, dice Lombardi. Si immagini quanto segue: “Un riacutizzarsi delle pressioni di mercato sull’Eurozona e la frammentazione che potrebbe prodursi in seno al consiglio direttivo della Banca centrale europea in merito alla risposta da contrapporre”. Perché tra chi tira la giacchetta della Merkel, oltre ai professori scapigliati di Alternative für Deutschland, ci sono anche importanti pezzi di establishment, scontenti (per usare un eufemismo) delle scelte della Banca centrale europoea: dalla Bundesbank alla potente industria assicurativa tedesca, solo per fare qualche esempio. “D’altronde è noto che in questo contesto il capitale politico dell’attuale presidente della Bce, Mario Draghi, con l’esecutivo tedesco, si va progressivamente erodendo. Ciò potrebbe spingere la cancelliera a una scelta estrema, nel tentativo di preservare il sistema politico tedesco da spinte nazionalistiche ed eurocentrifughe”.

 

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Quel problema chiamato “Francia”

 

Tutti gli interpellati, però, riflettono pure su un macroscopico ostacolo politico di nome “Francia”. “E’ la grande debolezza di questa ipotesi – ammette Zingales – Parigi economicamente non potrebbe stare al passo dei paesi del ‘neuro’. Il suo costo del lavoro per unità di prodotto è già aumentato del 20 per cento rispetto a quello tedesco. Una competizione delle merci italiane, per di più, le sarebbe fatale. Ma politicamente Parigi non potrebbe accettare quello che vivrebbe comunque come un declassamento. Aggiungo: nemmeno Berlino lascerebbe andare la Francia, probabilmente. Altrimenti la Germania, da sola, sarebbe vista come la Prussia di un ipotetico Quarto Reich”. Pilati aggiunge, concludendo: “Va considerata la debolezza politica ed economica proprio di quei paesi che avrebbero più vantaggi da una suddivisione dell’euro di questo tipo. Francia e Italia oggi sarebbero in grado di spingere la Germania a questo passo?”. La risposta, sottintesa, è “no”. Eppure sempre più spesso, pure nei circoli che contano, si fantastica su un’élite tedesca che a un certo punto, “più prima che poi” per citare l’Economist, possa parafrasare in maniera beffarda la frase di Giulio Andreotti sulla riunificazione delle due Germanie nel 1990: “Amo talmente l’euro che ne preferirei due”.

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