Cambi di casacca. Parte dell’intellighenzia è passata dall’antiberlusconismo apocalittico al renzismo più convinto, fingendo di non accorgersi che i due hanno molti tratti comuni

L'Italia alla Fiorentina

Giovanni Orsina

Ecco ciò che ha messo le ali a Matteo Renzi: crollo ideologico e organizzativo  a sinistra, berlusconismo senza complessi, rottamazione dura (ma non pura). Tra sistema maggioritario-leaderistico e vecchio modello Pci, la sinistra dopo anni di travaglio ha scelto la prima strada.

Parafrasando la metafora coniata da Aleksandr Herzen all’indomani del 1848 e ripresa di recente da Martin Amis, l’Italia di oggi è una vedova incinta: il vecchio mondo è morto, ma il nuovo non è ancora nato. Non sappiamo perciò come sarà l’Italia di Matteo Renzi, in verità non sappiamo nemmeno se ci sarà un’Italia di Renzi. Sappiamo tuttavia com’era il paese prima dell’epifania renziana, e sappiamo perché e come in quel paese il giovane presidente del Consiglio sia riuscito a imporsi: ossia, sappiamo in quale modo l’ascesa di Renzi si è intrecciata con il tramonto del vecchio mondo. Sappiamo pure che quel vecchio mondo non ci piaceva poi troppo, e possiamo quindi scetticamente nutrire qualche timida speranza che, quando infine partorirà, la vedova ci dia un figlio migliore di suo padre. La presenza di uno spazio vuoto fra la fine del ventennio berlusconiano e la nascita di un tempo nuovo, forse renziano, è dovuta al fatto che il “segretario fiorentino” non ha chiuso né vinto la “guerra civile fredda” fra Berlusconi e gli antiberlusconiani – piuttosto, ha tratto beneficio dalla sua conclusione per esaurimento.

 

Non è stato Renzi a togliere il cavaliere di scena, innanzitutto. Sia perché l’ex premier dalla scena non è ancora uscito, né pare per il momento avere l’intenzione di uscirne, sia perché Berlusconi, quando è arrivato all’unico scontro elettorale (le elezioni europee) che abbia sostenuto finora con Renzi, perdendolo malamente, era già enormemente indebolito dagli anni, dai fallimenti politici e dai guai giudiziari.

 

Un discorso non dissimile può valere per l’antiberlusconismo. Non vi è alcun dubbio che l’attuale presidente del Consiglio lo abbia consegnato alla storia (ci torneremo su fra breve). Anche in questo caso però – e anzi, ad ancora maggior ragione – è di un moribondo se non di un morto che Renzi si è sbarazzato: di un antiberlusconismo che prima il risultato elettorale del 2013, con il fallimento del Pd e l’affermazione del movimento grillino, poi le vicende legate all’elezione del capo dello stato e alla formazione del governo Letta avevano già disintegrato. L’ex sindaco di Firenze ha insomma identificato e riempito un vuoto politico, muovendosi con un tempismo e una rapidità sbalorditivi, coniugati a faccia tosta e scrupoli politici in rapporto inversamente proporzionale (vedi alla voce “Letta”). S’è infilato nel letto della vedova, per restare alla metafora di Herzen. Ma che cosa riuscirà a farci con questa vedova, ancora non lo sappiamo.

 

Nelle pagine che seguono, perciò, non osserveremo il “renzismo” in relazione al tempo futuro del quale l’Italia è gravida, ma al tempo passato del quale essa è vedova. Lungo tre direttrici: il rapporto con la tradizione della sinistra italiana; il parallelismo con Berlusconi; la questione della rottamazione.

 

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Matteo Renzi e il tracollo della tradizione politico-organizzativa della sinistra. L’ascesa del giovane segretario fiorentino è stata accompagnata – per certi versi preceduta – da una clamorosa metamorfosi della sinistra; più precisamente, dalla repentina defenestrazione di quella parte consistente del proprio bagaglio che l’Italia progressista era riuscita a salvare dal naufragio di Tangentopoli e si era portata dietro negli ultimi vent’anni.

 

Defenestrazione del bagaglio strutturale, innanzitutto: la sinistra italiana è stata segnata in profondità dalla tensione fra il desiderio e il bisogno di adattarsi al sistema maggioritario, leaderistico e mediatico formatosi nel 1994 da un lato, e alcuni principi politico-organizzativi ereditati dal Partito comunista italiano dall’altro. Principi più o meno riconducibili a quella che Luciano Cafagna, con espressione memorabile, chiamò la “strategia dell’obesità” comunista: l’apparato precede il leader e lo controlla; la stabilità del partito conta più del destino della coalizione; la manutenzione dell’elettorato tradizionale prevale sull’esigenza di conquistare nuovi ceti e territori. Questa tensione, che per due decenni ha messo a soqquadro il campo progressista – vedi alla voce “Prodi” – sembra (sembra…) essersi adesso risolta con la netta vittoria della “seconda” Repubblica sulla “prima”: del leader sull’apparato; dello schieramento idealmente maggioritario sul partito obeso ma minoritario; del vasto mare elettorale sulle riserve di caccia.

 

Defenestrazione del bagaglio ideologico, in secondo luogo e ancor di più. Per vent’anni la cultura progressista ha ritenuto di essere moralmente superiore a quella non progressista – per non parlare della (presunta in-) cultura berlusconiana. Questa presunzione etica ha fatto danni smisurati alla sinistra, oltre che al paese. Anzitutto l’ha divisa, poiché molti nel campo progressista percepivano l’infondatezza e la pericolosità di un approccio moralistico alla politica. E l’ha divisa con una frattura ortogonale a quella “strutturale” di cui sopra, così che il campo si è trovato scomposto in quattro quadranti. Poi ne ha paralizzato la capacità di innovazione, riducendola nello spazio angusto di un bunker etico utile magari nella guerra di trincea contro il berlusconismo, ma inservibile e anzi dannoso nel contrattacco. In terzo luogo, le ha tolto qualsiasi possibilità di rivolgersi all’elettorato non di sinistra. Non solo: ha offeso e spaventato quell’elettorato, contribuendo non poco al “voto negativo” per Berlusconi, determinante soprattutto a partire dal 2006. Ha collocato inoltre la retorica progressista in cima a vette etiche inattingibili dai politici in carne e ossa, così che nel sentimento pubblico la diversità morale si è convertita in ipocrisia.

 

Last but not least, ha dato un contributo determinante alla “guerra civile fredda” che ha paralizzato il paese per vent’anni.
Renzi ha approfittato della sconfitta devastante che tanto la cultura politico-organizzativa ereditata dal Pci quanto l’antiberlusconismo etico hanno patito alle elezioni del 2013 per portare la sinistra italiana dentro al quadrante in cui la seconda Repubblica – leader, media e schieramento maggioritario – incontra un antiberlusconismo non moralistico ma politico.

 

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Il rapporto con il berlusconismo. E’ a partire da questa premessa che deve essere costruito il parallelismo fra Renzi e Berlusconi: non immaginando un processo di imitazione meccanica, né tanto meno facendo della similitudine uno strumento polemico utile a screditare l’attuale presidente del Consiglio; ma riconoscendo nel berlusconismo l’espressione di tendenze storiche robuste alle quali per due decenni la sinistra ha invano cercato di adattarsi, ostacolata dalla propria stessa tradizione; e considerando Renzi il punto conclusivo (almeno per il momento) di questo sforzo ventennale – conclusione alla quale si è giunti anche in virtù del collasso di quella tradizione.

 

[**Video_box_2**]A questo proposito occorre aggiungere un appunto ulteriore: la rapidità, e se vogliamo la superficialità, con le quali una larga parte dell’establishment politico-culturale progressista ha gettato fuori bordo quella tradizione nei mesi successivi alla débâcle elettorale del 2013, sono state davvero sconcertanti. Il romanzo di Francesco Piccolo “Il desiderio di essere come tutti” esprime a perfezione questo fenomeno, ed è perciò emblematico che abbia vinto l’ultimo premio Strega. Il libro – uscito prima, e quindi pensato molto prima, che Renzi diventasse segretario del Pd – descrive il distacco della cultura post comunista dalla “purezza”, ossia dal senso di superiorità morale: la scoperta (assai tardiva) che la sinistra poi tanto pura non è, che nel mondo reale la purezza può anche far danni, che l’impurità è divertente, che perfino chi è a tal punto impuro da votare a destra è, in fondo, un essere umano. Nelle parole di Piccolo, però, questo distacco è lieve come una piuma: l’autore pare sbarazzarsi di trent’anni di identità radicata, esigente e aggressiva senza alcun tormento, severità, né assunzione di responsabilità.

 

Allo stesso modo, una parte dell’intellighenzia progressista è passata disinvoltamente dall’antiberlusconismo apocalittico al renzismo più convinto, fingendo di non accorgersi di come il segretario fiorentino stesse replicando e in qualche caso amplificando svariati tratti del berlusconismo, e non dei più marginali: il leaderismo, l’insofferenza per le procedure, l’ottimismo, la superficialità, la demagogia. Tanto da rafforzare il sospetto che in molti casi la sostanza dell’antiberlusconismo fosse largamente pretestuosa, che il vero peccato imperdonabile del Cavaliere fosse quello di avere organizzato la destra e di frapporsi quindi tra la sinistra e il suo desiderio di vincere le elezioni.

 

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Un paese che oscilla tra gerontocrazia e voglia di rottamazione. Il tema della rottamazione che ha caratterizzato la retorica e l’azione di Renzi si ricollega ad alcuni argomenti trattati sopra, in particolare al rapporto col berlusconismo e a quello con la tradizione politico-organizzativa comunista, ma per certi versi li trascende. In Italia – paese nel quale le istituzioni sono deboli e di conseguenza sono forti gli individui e le loro reti – il ricambio generazionale non ha mai funzionato granché bene. Negli ultimi vent’anni, però, il meccanismo sembra essere completamente impazzito: da un lato i canali tradizionali di formazione, selezione e rinnovamento della classe politica, i partiti in primis, si sono indeboliti enormemente o sono del tutto scomparsi; dall’altro la retorica del primato della società civile ha sia delegittimato la politica come professione, sia fatto del rinnovamento un valore in sé. Gerontocrazia e rottamazione sono così diventate le due polarità di un paese incapace di procedere altro che a strappi, oscillando da un eccesso all’eccesso opposto.

 

Il berlusconismo, radicato nel mito della società civile, aveva proposto di risolvere il problema utilizzando il modello della “discesa in campo”: chi si era distinto nella “trincea del lavoro” avrebbe dato vita a una nuova classe politica efficiente e moralmente sana. Il modello, è appena il caso di notarlo, non ha funzionato: sia perché le virtù imprenditoriali non si traducono automaticamente in capacità politica, sia perché la formazione e selezione di un’élite richiedono dei meccanismi minimamente istituzionalizzati e aperti.

 

[**Video_box_2**]Il grillismo ha esteso e radicalizzato il ragionamento berlusconiano: il riavvicinamento delle istituzioni alla società si è trasformato in un allagamento totale delle prime da parte della seconda, tale da cancellare completamente l’autonomia della politica; e la società civile ha perduto il carattere robustamente gerarchico, seppur meritocratico, che aveva nel berlusconismo per diventare un insieme egualitario e indifferenziato di uomini e donne qualunque. Da qui la retorica dell’“uno vale uno” o della casalinga al ministero dell’Economia.

 

Con la rottamazione, Renzi si è infilato nel medesimo canale retorico di Berlusconi e di Grillo – canale che in questo momento, con ogni probabilità, chiunque desideri vincere le elezioni non può fare a meno di percorrere. La nuova élite proposta da Renzi, però, almeno per quel che si è visto finora, viene dalla politica e dal partito – e il suo titolo di novità consiste dunque non nell’estraneità alla sfera pubblica, ma nell’anagrafe.

 

Il rinnovamento di Renzi è generazionale, insomma, ma rispetto alla questione dell’autonomia della politica è in continuità con la tradizione organizzativa e culturale della “vecchia” sinistra: la rottamazione renziana è meno rivoluzionaria di quanto pretenda di essere. E’ stata radicale, semmai, nel saltare tutte le generazioni di mezzo per arrivare direttamente ai trentenni.

 

L’avvicendamento al governo fra Letta e Renzi ha rappresentato l’emblema di questo “salto”: già il primo esecutivo era stato presentato come un momento di rinnovamento anagrafico, l’ascesa dei quarantenni; la sua fulminea rottamazione ha dato l’impressione che il paese, nella sua insaziabile ansia di novità, avesse in pochi mesi dichiarato superata una generazione relativamente giovane per passare senza indugio a quella giovane davvero. E allo stesso tempo, naturalmente, ha anche dato l’impressione che Renzi, dotato di un tasso non proprio modesto di egocentrismo leaderistico, mal tollerasse di vedersi intorno persone maggiori di lui.

 

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Riuscirà o fallirà la rottamazione renziana? Ho voluto aprire questo articolo con la metafora della vedova incinta anche per evitare il terreno sdrucciolevole delle previsioni. In conclusione, però, si possono almeno proporre tre considerazioni “di prospettiva”. La prima: di situazioni nelle quali una generazione giovane prende il potere scavalcando quella o quelle più anziane è piena la storia. Naturalmente il “salto” implica una perdita secca di esperienze, competenze e memoria. Ciò nonostante, non è detto che la discontinuità non sia comunque meglio della continuità, anche perché spesso la o le generazioni scavalcate non sono del tutto innocenti: in genere hanno avuto il torto di non essersi emancipate dai loro maggiori, di averne accolto e riprodotto i paradigmi ormai esausti.

 

Seconda considerazione: il ricambio generazionale è avvenuto ai piani alti della politica, ma sia la macchina pubblica sia la società, magari con qualche rara eccezione, seguono logiche assai differenti. In queste circostanze la rottamazione “di vertice” rischia di ridursi, per così dire, a una “bolla speculativa”. Allo stesso tempo, però, una rottamazione che scendesse compiutamente “per li rami” renderebbe la perdita di esperienze, competenze e memoria eccessiva e perniciosa. Non sarà affatto facile trovare il punto di equilibrio.

 

Terza e ultima considerazione: la solitudine è la cifra di Renzi più ancora di quanto non lo sia di qualsiasi altro leader politico. E’ solo perché non ha concorrenti, e ha preso il potere nel vuoto. E’ solo perché si circonda di collaboratori minori di lui. Questa solitudine assoluta, che con ogni probabilità nell’immediato rappresenta la sua più grande risorsa, nel medio e lungo periodo potrebbe trasformarsi nel suo tallone d’Achille. E’ vero pure, però, che il medio periodo e il lungo interessano soltanto agli analisti.

 

Giovanni Orsina è docente di Storia contemporanea e vicedirettore della School of Government all’Università Luiss Guido Carli di Roma

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