La “marcia degli eroi” organizzata dieci giorni fa a Kiev dagli attivisti del partito radicale Settore Destro e dai militari del battaglione Azov (foto LaPresse)

I guardiani di Kiev

Luigi De Biase

L’Ucraina oggi va al voto. Tra Pravy Sektor e vecchi oligarchi, ecco chi è rimasto a custodire una rivoluzione rimasta a metà. Olena ha investito i suoi risparmi per comprare un’arma, è stata quattro mesi al fronte, ha perso più di sessanta compagni.

“Il polacco sparava, mio caro signore, perché lui era la controrivoluzione. E voi sparate perché siete la rivoluzione. Ma la rivoluzione è la contentezza. E alla contentezza non piace d’avere degli orfani in casa. L’uomo buono fa opere buone. La rivoluzione è un’opera buona di uomini buoni. Ma gli uomini buoni non uccidono”. (Isaak Babel’, “L’armata a cavallo”)

 

Olena Bilozerska è una delle quattro o cinque donne ucraine che hanno investito una parte dei risparmi per comprare un’arma, e poi sono partite a combattere fra le campagne di Donetsk, ovvero a est, verso il confine con la Russia. Nel caso specifico le armi sono due, un fucile automatico Ak e una carabina Mauser 98K. Non è una scelta comune, la maggior parte delle donne a Kiev desidera al massimo un buon lavoro e un buon marito e le ragazze nei bar parlano di esami, di cinema e d’amore, com’è normale che sia. A ogni modo, Olena propone d’incontrarsi al Kupidon, nel seminterrato di un vecchio palazzo sulla strada Pusˇkin, che si trova nel centro di Kiev. E quando arrivo è già seduta e aspetta con un giaccone militare, lo zaino a terra accanto alla sedia e una tazza di caffè di fronte agli occhi. Tiene i capelli raccolti in qualche maniera dentro il berretto, racconta con calma di avere passato quattro mesi al fronte e di avere perso almeno sessanta compagni. Il momento peggiore, dice, non è la battaglia ma l’attesa della battaglia, perché dormire diventa impossibile e i pensieri avanzano senza controllo. Tanto che i primi spari, per alcuni, sono una liberazione. Spiega anche che questa guerra è una bestia imprevedibile, nessuno sa dire quando finirà, serviranno mesi, probabilmente anni, prima che tutto torni “normale”. Sul braccio sinistro, cucito sotto la spalla, ha il simbolo di Pravy Sektor, il movimento nazionalista che combatte i filorussi di Donetsk e corre alle elezioni di domenica con una propria lista. Di quella lista Olena è il numero due, quindi al Kupidon siede con un giovanotto sui trenta che porta come lei la tuta mimetica ma non ha per niente l’aria del soldato. Tecnicamente il giovanotto ha il compito di seguire i candidati in questa campagna elettorale, il problema è che non sembra troppo lucido e resta immobile in silenzio, con i gomiti sul tavolo e la testa sopra i gomiti. Sino a quando, per la noia o per qualche bicchiere di troppo, prende lo zaino di Olena sulle ginocchia, apre la cerniera e afferra con due mani il fucile Ak. A quel punto due uomini al bancone cominciano a guardare preoccupati, cercando di capire se è il momento di lasciare gli sgabelli. “Che stai facendo? Rimettilo a posto”, gli fa lei con le buone prima di voltarsi verso il bancone e avvertire: “Non dovete preoccuparvi, il fucile è scarico, non c’è bisogno di chiamare la polizia”. Allora il ragazzo protesta a bassa voce, spalanca gli occhi e dice piagnucolando: “Lasciami stare Olenushka, voglio solo tenerlo in mano per un po’”. Poi si calma, rimette l’Ak nello zaino, chiude la cerniera e si piega di nuovo al suo angolo di tavolo, come se niente fosse accaduto. Così anche quelli al bancone tornano rapidamente ai loro affari.

 

[**Video_box_2**]Nessuno a Kiev si aspetta un grande risultato da Pravy Sektor alle elezioni della Rada di oggi. A maggio, quando il paese è andato al voto per le presidenziali, il partito s’è fermato bene al di sotto dell’1 per cento, e i sondaggi oggi non sono più generosi. Il grande favorito resta il presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, che dovrebbe ottenere la maggioranza dei seggi. La novità, semmai, potrebbe essere il Partito radicale di Oleg Lyashko, nazionalista e populista, il cui simbolo (una forca) rappresenta a dovere il manifesto del movimento. Ma il sostegno che Pravy Sektor vanta nelle strade di Kiev è ben più vasto rispetto ai numeri delle elezioni. Poroshenko lo sa bene, e sa anche che le elezioni, in Ucraina, non sono l’unico sistema per decidere chi deve governare: dopotutto, Pravy Sektor ha avuto un ruolo determinante negli scontri di piazza che si sono visti l’anno scorso a Kiev e hanno spinto alla fuga l’ex presidente Viktor Yanukovich. Da allora gli uomini e le donne di Pravy Sektor non hanno più posato le armi, cinquecento sono al fronte di Donetsk, inquadrati nei diversi battaglioni della Guardia nazionale, altri presidiano le strade di Kiev, Odessa, Kharkov, stanno di fronte ai palazzi del governo, prendono a pugni i politici “corrotti”, portano avanti la loro guerra privata contro i simboli del vecchio regime, una guerra che chiamano “lyustraziya”, lustrazione, pulizia, e che ha avuto sinora molto successo con i monumenti di Lenin e poco, davvero poco, con i pubblici ufficiali. In alcune città hanno cominciato anche a svolgere in modo del tutto autonomo compiti di polizia, insomma, si comportano come se fossero i guardiani di una rivoluzione che s’imputridisce in fretta, si muovono pensando di essere una forza cosacca: nazionale, radicale e indipendente. “Volete la completa verità? Ebbene, la verità è quella che segue: Pravy Sektor è un grosso dolore nel culo del governo”, dice un funzionario al ministero dell’Interno, e non si capisce bene se abbia più a cuore la trasmissione corretta del concetto o la garanzia di non essere citato con nome e cognome. “Avere a che fare con loro è come parlare con i bambini – continua – Sono completamente inaffidabili, ed è per questo che il governo non li ha autorizzati a formare un vero gruppo nella Guardia nazionale. Certo, possono confluire volontariamente in altri battaglioni, ma non ne hanno uno loro e non credo che le cose cambieranno presto”. Per ora quelli di Pravy Sektor non sembrano molto intimoriti dal governo, né dai risultati scarsi alle urne. “Per me combattere non è stata una scelta difficile – dice Olena, seduta al tavolo del bar Kupidon – Dal punto di vista morale sono sempre stata pronta a farlo. Mi sento un soldato e non lascerò soli i miei compagni, non lo farei nemmeno nel caso in cui dovessi entrare in Parlamento. Certo, anche io un giorno vorrei avere una famiglia con i figli e tutto il resto, ma ora, qui, c’è una guerra da combattere. Capisci quel che intendo?”.

 

Comunque sia, i battaglioni della Guardia nazionale rappresentano il grosso affare e il grosso problema dell’Ucraina alla vigilia delle elezioni parlamentari. Averne uno significa controllare uomini, voti, canali di finanziamento in patria e anche all’estero. Questi gruppi sono formati da volontari e sono nati nel corso degli ultimi mesi, quando la Crimea ha deciso con un voto popolare di chiedere l’annessione alla Russia e nelle settimane successive, con i primi colpi del movimento separatista a Donetsk, Lugansk e Kharkov. Il governo ne ha riconosciuti ufficialmente una quarantina, attribuendo loro compiti analoghi a quelli delle Forze armate. Le stime sui loro effettivi mutano, in generale si parla di 5.000, forse 10.000 uomini. Nella maggior parte dei casi i nomi dei battaglioni riprendono quelli di città, fiumi e montagne dell’Ucraina – quindi ci sono i battaglioni Azov e Donbass, che sono i più importanti sotto il profilo numerico, il Ternopil, l’Aidar, il Lugansk e il Kiev. Altri ricordano la rivolta recente contro Yanukovich, a partire dal battaglione Maidan. Poi ci sono quelli che si rifanno alla tradizione cosacca dell’Ucraina, come il Sich e il Bogdan. L’Azov (3.000 uomini a disposizione e fondi ingenti) porta simboli neonazisti e arruola volontari in linea con quella ideologia. I battaglioni rispondono agli ordini del comando antiterrorismo, che ha sede a Kiev nel palazzo dei servizi segreti. Sulla carta devono avere le stesse armi e la stessa paga dei soldati regolari, che è compresa fra i 200 e i 400 euro al mese, ma in realtà il loro budget non dipende dallo stato centrale bensì da un certo numero di oligarchi che il governo ha scelto la scorsa primavera per guidare alcuni oblast, le autorità amministrative che corrispondono grosso modo alle nostre regioni. E’ il caso di Sergy Taruta, fondatore dell’Unione industriale del Donbass e governatore di Donetsk, un incarico di rappresentanza dato che quel territorio è quasi completamente nelle mani dei separatisti filorussi. O di Igor Kolomoysky, conosciuto con il soprannome di Benya, finanziere, banchiere, imprenditore nel settore del gas, del petrolio e delle costruzioni, a capo dell’oblast di Dnipropetrovsk. La legge non attribuisce ai governatori alcun compito nella difesa dei confini, ma nei fatti sono loro a controllare i battaglioni attraverso immense fortune private. “Non c’è alcun trasferimento diretto di soldi – s’affretta a spiegare il funzionario degli Interni, schiarendosi la voce e posando la sigaretta nel posacenere – I governatori conoscono i bisogni dei gruppi che combattono nei loro oblast e quindi forniscono divise, sacchi a pelo e stivali, tutto quel che serve per combattere, fatta eccezione per le armi perché quelle arrivano dall’esercito”. I battaglioni sono già una forza solida, ed è su quella che il governo ucraino vuole ricostruire le sue difese, annientate quasi totalmente in poche settimane di scontri con i filorussi. Poroshenko ha scelto pochi giorni fa come ministro della Difesa Stepan Poltorak, che sino alla scorsa settimana era proprio a capo della Guardia nazionale. “Loro sono la parte migliore del nostro paese – ripete il funzionario al ministero degli Interni – L’esercito è il posto per chi vuole restare seduto dietro la scrivania e per chi intende fare soldi vendendo sottobanco i macchinari dello stato. Ma i veri patrioti stanno altrove”. I comandanti dei battaglioni sono considerati in effetti eroi nazionali, i partiti politici fanno a gara per averli nelle liste e molti di loro entreranno con ogni probabilità a far parte della Rada già dalla prossima settimana. Il più conosciuto, Semen Semchenko, combatte con il Donbass ed è candidato con Samopamoch (tradotto dall’ucraino significa qualcosa come “auto-aiuto”, o “auto-sostegno”). Il suo ruolo è riconosciuto anche all’estero, basti pensare che il mese scorso è volato a Washington con Poroshenko e altri uomini del governo per incontrare i rappresentanti di West Point e discutere la possibilità di ottenere armi e addestramento dalla scuola militare più importante al mondo. In patria il peso dei battaglioni cresce giorno dopo giorno: se l’esistenza di uno stato dipendesse davvero dal monopolio legittimo della forza e della violenza, allora l’Ucraina dovrebbe essere già da un pezzo sull’elenco dei paesi formalmente falliti, perché i gruppi semiprivati e semiprofessionali hanno già un potere di ricatto fortissimo sul governo. Dieci giorni fa qualche migliaio di uomini con le insegne di gruppi paramilitari ha raggiunto il palazzo della Rada a Kiev per spingere i deputati a chiudere in fretta il dibattito su una nuova legge anticorruzione, sparando colpi di pistola contro le vetrate dell’ingresso (i fori dei proiettili si vedono ancora). Episodi del genere si moltiplicano in tutta l’Ucraina.

 

“Io non credo che i battaglioni e i loro comandanti siano un problema per il futuro del nostro paese – dice Anna Hopko, leader del partito Samopomich, lo stesso in cui è candidato il comandante Semchenko – Oggi c’è il serio pericolo che il potere sia usurpato perché gli ufficiali sono corrotti e nei ministeri le paghe sono troppo basse. Dobbiamo aprire il nostro sistema, la politica deve diventare più trasparente, ma in questa fase di transizione gli uomini dei battaglioni che saranno eletti in Parlamento possono dare un grande contributo all’Ucraina”.

 

Samopomich è stato fondato di recente ma ha già un buon seguito, soprattutto nella parte ovest dell’Ucraina. Hopko parla perfettamente inglese ed è fra i pochi protagonisti della rivolta contro Yanukovich ad avere ancora qualche possibilità di cambiare il paese. Gli altri, specialmente quelli che hanno accettato subito un posto nelle istituzioni “ripulite” del dopo Maidan, sono stati i primi ad affrontare un certo tipo di “lyustraziya”. Prendete Tatiana Chernovil, la giornalista nominata alla guida della commissione Anticorruzione, che ha lasciato l’incarico dopo un paio di mesi (i burocrati, ha detto, non mi passavano neanche i documenti). Oppure Pavlo Sheremeta, il solo economista ucraino con un profilo europeo, che ha abbandonato la poltrona di ministro delle Finanze. Lo stesso hanno fatto Oleg Musiy (ex ministro della Salute), Andriy Deshchytsia (responsabile degli Esteri per alcune settimane) e Stepan Kubiv (direttore della Banca centrale). Al loro posto Poroshenko ha sistemato uomini che già occupavano posizioni di controllo nella stagione degli ex presidenti Viktor Yushchenko e Viktor Yanukovich.

 

Oggi non c’è un controllo civile sul lavoro svolto dal governo e sul programma di avvicinamento all’Unione europea. Quel compito se lo sono preso i battaglioni e gli uomini di Pravy Sektor, ma loro rispondono a interessi che vanno ben oltre l’agenda europea dei riformisti.

 

[**Video_box_2**]Il problema non riguarda solamente Kiev, anche se il centro politico del paese mostra i segni più evidenti del tempo che attraversa. Per capire questo bisogna parlare con persone come Berl Kapulkin, il portavoce della comunità ebraica di Odessa, una città che è stata stella dell’esilio e pozzo di sventure per milioni d’israeliti che qui hanno trovato per secoli rifugio. Berl accoglie gli ospiti nella sinagoga sulla strada Osipova: racconta con cura la grandezza di quel tempio, dimora di saggi, poi sede del Comitato lavoratori ebrei all’epoca del comunismo e oggi di nuovo luogo di preghiera. Ma nel pieno dei racconto avvertiamo una musica intorno, una melodia che penso di avere sentito altre volte, allora ci guardiamo per qualche secondo finché Berl, con un po’ d’imbarazzo, mette una mano in tasca e cerca di spegnere il telefono, ma quando riesce a farlo il ritornello di “Gelato al cioccolato” è già partito e risuona a tutto volume, quindi non può far altro che scusarsi e confessare sorridendo di essere un grande appassionato di Pupo. Dopodiché la conversazione torna seria. In molti paesi, dice Berl, la comunità ebraica avrebbe fatto sentire con forza la propria voce di fronte alla presenza di politici nazionalisti e uomini che portano simboli neonazisti sulle loro divise. Ma qui, dice, le cose sono un po’ diverse rispetto al resto dell’Europa, noi non abbiamo molto peso nella vita pubblica, le nostre proteste finirebbero inascoltate, affossate dal governo e dai mezzi di informazione. Qualche settimana fa qualcuno ha disegnato il simbolo di Pravy Sektor sul muro del cimitero ebraico: è stata una provocazione, dice lui, non sappiamo chi sia il responsabile, l’unica cosa certa è che il giorno seguente il capo di Pravy Sektor è venuto sin qui da Kiev per scusarsi di persona e per rassicurarci, hanno anche ripulito il muro, quindi per noi non c’è stato più alcun problema. Certo, racconta Berl, anche a Odessa ci sono persone con pensieri antisemiti, ma ora la maggior parte di loro è nel Donbass a combattere contro i separatisti, e quindi in qualche modo quella gente deve avere anche il nostro rispetto.

 

A Odessa questa è la stagione in cui i camerieri ritirano i tavoli dalla strada Deribasivska e i vecchi giocano a scacchi nella piazza della cattedrale. Nel quartiere ebraico le donne vendono ancora verdure sui marciapiedi. Se non ci fosse la guerra, questa sarebbe una giornata d’autunno uguale a tutte le altre. Così è l’Ucraina alla vigilia delle elezioni per la nuova Rada.

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