Matteo Renzi parla dal palco della Leopolda (foto LaPresse)

Nella pancia del renzismo. Foto, messaggi in codice, guerra tra mondi

Claudio Cerasa

Cronaca dalla Leopolda. Come nasce la scissione culturale tra i due Pd.

Firenze. La linea è chiara: silenzio, non si commenta. L’approccio è speculare: non importa, si fa finta di nulla. Il messaggio è evidente: di là la sinistra della non vittoria, di qua la sinistra della non sconfitta. Nella giornata delle due piazze, dei due popoli distinti, dei due universi non coincidenti, della Cgil che sfida la Leopolda, della Leopolda che sfida il sindacato, del corpo intermedio (Camusso) che si confronta con il corpo liquido (Renzi), nella giornata della guerra dei mondi il senso politico è chiaro, e lo si potrebbe riassumere anche con un tweet: il Pd, ovvero il vecchio Pd, in piazza in mezzo a mille bandiere della Cgil; il nuovo Pd, il Pd della Leopolda, o meglio il Pd corrente della Leopolda, raccolto senza bandiere in una stazione di Firenze a declinare il renzismo. E come capita spesso quando si tratta di renzismo più che i contenuti conta il contenitore. E il contenitore della Leopolda è un vortice fatto di immagini, di simboli e di dettagli.

 

E’ una Leopolda diversa rispetto a quelle del passato. E’ una Leopolda in cui non si vede più la foga e il sudore del primo renzismo, quando il sogno di scalare il partito, e dunque il paese, immetteva nell’aria il senso di ebbrezza e di incoscienza dei sognatori; ma è una Leopolda più ingessata, istituzionale, ordinata, forse più noiosa, in cui il segretario-presidente-gran-cavaliere-di-gran-croc ha il compito di mantenere il contatto con il suo popolo non – come era un tempo – presentando un sogno, conquistare il mondo, ma – come deve essere oggi – presentando un progetto, ovvero governare il paese. Le immagini della Leopolda sono queste. Sono i renziani della prima ora che osservano i renziani della seconda ora con occhio ironico, soddisfatto e compiaciuto. Sono i tavoli in cui la classe dirigente renziana mette a fuoco i temi da proporre al compagno Matteo. Sono i militanti dei DL (Democratici della Leopolda) che girano tutto il giorno per scambiare una chiacchiera con un ministro. Sono le foto della vocazione maggioritaria immortalata negli abbracci tra Gennaro Migliore (ex Sel) e Andrea Romano (ex Monti) che si ritrovano oggi – dopo il big bang dei loro partiti – insieme nella big tent renziana (entrambi si sono iscritti al Pd). Sono le parole di Alessandra Moretti (ex anti renziana di ferro, ex portavoce di Bersani, oggi renziana di ferro) molto acclamata alla Leopolda e pronta a candidarsi come governatore del Veneto. Sono gli abbracci tra Raffaele Cantone (primo magistrato sul Palco della Leopolda) e Pina Picierno (ex anti renziana ora renziana di ferro e pronta anche lei a candidarsi come governatore della sua regione, la Campania). Sono le lunghe file di persone che si formano in mezzo alla Leopolda ogni volta che Luca Lotti (uno dei tanti del governo qui alla Stazione di Firenze) si ferma a parlare con qualcuno. Sono gli sguardi contenti ma preoccupati dei sindaci in camicia bianca (Matteo Ricci, Pesaro, Giorgio Gori, Bergamo) che rappresentano una nuova e ibrida generazione di amministratori locali (moltissimi sindaci a Firenze) che vorrebbe dirne un paio all’amico Matteo, per i tagli che il governo ha imposto ai comuni, ma che oggi non possono non riconoscere, con gioia, che per governare bisogna stringere i denti e che questo non è tempo di protestare ma è tempo di sorridere e guidare. Sono le parole di Davide Serra (croce e delizia della Leopolda) che improvvisamente annuncia di volersi iscrivere nello stesso partito di Stefano Fassina (il Pd). Sono gli sguardi preoccupati dei renziani disorientati (Alessia Morani) che fermano i cronisti per capire come sta andando in piazza e quanta gente c’è alla Cgil (“Lo vedi – dice qualcuno – guarda bene, il palco è montato avanti, la piazza non è così piena, ma no, non farmi dire niente, l’ordine di Matteo è di non commentare, oggi ci siamo noi, gli altri non importa che fanno, non sono certo loro che governano, no?”). Sono gli ormoni dei giovani militanti (molti ventenni, molte creste, molte tatuaggi, molti zaini sulle spalle) che si aggirano sotto il palco per strappare un autografo alla Boschi, un selfie alla Madia, un autografo a Delrio, un bacio da Richetti. Sono gli sguardi soddisfatti dei leopoldini della seconda ora (Andrea Gragnani, avvocato. Piero Bonarelli, banchiere) che, in questa stazione che potrebbe essere tutto, un centro commerciale, un museo, una fermata della metropolitana, un discount, un appartamento, un ristorante, tutto tranne che una sezione di partito, si sentono a loro agio senza bandiere del Pd e dicono di essersi avvicinati a Renzi solo perché Renzi ha mostrato di essere vicino al Pd meno di quanto non imporrebbe il suo essere segretario (“Prima votavamo Berlusconi, mbé, che male c’è?). Sono gli investitori storici del renzismo (Bertelli di Prada, Novari di H3g) che vengono invitati da Renzi a parlare sul palco anche per regalare al pubblico una visione del lavoro diversa rispetto a quella proposta in piazza dai sindacati (messaggio: di là c’è un pezzo di paese che considera “padroni” i capi azienda, di qua c’è un pezzo di paese che considera degli amici quelli che gli altri chiamano padroni). Sono i pezzi di classe dirigente della Leopolda diventati classe dirigente dell’Italia che salgono sul palco (Orlandi, direttore dell’agenzie dell’entrate), parlano d’Italia, parlano del paese, parlano del governo e presi dall’emozione si dimenticano di essere quello che sono e salutano il presidente senza chiamarlo presidente ma semplicemente Matteo. Sono i pass distribuiti ai giornalisti, agli ospiti e ai militanti in cui – in nome della generazione you and me, in nome del rapporto tra me e te, in nome della disintermediazione – non conta il cognome ma conta solo il nome (“Filippo”, “Francesco”, “Claudio”, “Federico”). Sono i renziani che sbattono contro le pareti della stazioni perché impegnati a controllare quali protagonisti della propria timeline di Twitter sono oggi proprio lì in carne ed ossa insieme al proprio beniamino – “Mat-te-o, Mat-te-o”.

 

[**Video_box_2**]Le immagini della Leopolda messe al confronto con le immagini della piazza ci dicono che la storia della scissione politica non esiste, perché oggi tutti, anche chi si ritrova in piazza a sbaciucchiare Susanna Camusso, ci dicono che sotto la tenda del Partito democratico c’è piuttosto una scissione culturale in corso che ha una sua certa importanza. Con una parte del partito che vede nel “popolo della Leopolda” un partito parallelo, e una potenziale degenerazione del progetto del Pd (perché il partito, per quanto possa essere maggioritario, non può ambire a essere un partito acchiappatutto). E con un’altra parte del partito che vede invece nella Leopolda un fenomeno più complesso, e che vede nella tenda della stazione di Firenze, sì, una sorta di comitato elettorale in servizio permanente effettivo ma anche qualcosa di diverso. Qualcosa che si può riassumere con una frase concessa al cronista da un importante esponente del Pd tendenza Leopolda. “L’Italia è da sempre abituata a vedere persone che dal governo provano a far nascere un nuovo partito. Oggi è invece in corso un fenomeno diverso. C’è un partito di governo che è arrivato al governo e si trova perfettamente a suo agio. E c’è un partito di lotta che arrivato al governo si trova più a suo agio a criticare il suo governo”. Due popoli e due lingue diverse. Due modi diversi di intendere la sinistra. Il messaggio di Renzi è di non commentare. Di non cadere nelle trappole. Di non cedere alle provocazioni. Ma mai come oggi il messaggio delle due piazze è chiaro. Da una parte il Pd con le bandiere di forza Susanna e dall’altra il Pd senza bandiere di forza Matteo. La scissione culturale c’è. Per il resto c’è tempo. Con calma. Senza fretta. C’è tempo, almeno, fino alle prossime elezioni.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.