Mario Draghi (foto LaPresse)

Arriva un'ora X, adesso tocca alle banche

Stefano Cingolani

Perché Draghi rivoluziona un’Europa bancocentrica e bismarckiana

Roma. Si chiude domenica un ciclo durato sette anni e si apre una fase nuova nel primo motore immobile dell’economia europea. Sono stati sette anni di banche magre. Nonostante i salvataggi con i denari dei contribuenti e l’ingente iniezione di liquidità decisa da Mario Draghi nel 2011 (mille miliardi di euro), i prestiti sono crollati (un taglio di ben 594 miliardi di euro) e con essi la produzione di reddito, i posti di lavoro, il potenziale economico dell’area euro sempre più lontana dagli Stati Uniti anche perché non ha fatto pulizia in tempo. La Banca centrale europea sta correndo ai ripari: troppo tardi?

 

L’Europa soffre di ipertrofia bancaria: 6.790 banche che forniscono l’80 per cento del credito e conservano in pancia attività per 30 mila miliardi di euro, tre volte l’intero prodotto interno lordo dell’Eurozona. Hanno poco capitale, meno delle concorrenti americane e si tengono l’una con l’altra (un terzo dei debiti è in mano ad altre banche), bloccando lo sviluppo di un mercato finanziario più moderno e concorrenziale. La crisi europea, dunque, è fino in fondo una crisi bancaria. Pochi ricordano che le avvisaglie del grande crac si manifestano nel 2007 e il primo fallimento riguarda una banca tedesca, apparentemente piccola e periferica: la Ikb Deutsche Industriebank, con sede a Düsseldorf. Sulla carta, è specializzata nel credito alle piccole e medie aziende, in realtà grazie ai suoi prestiti sono stati realizzati interi quartieri nella Florida del boom edilizio. E’ il 31 luglio e la virtuosa Bundesbank dà semaforo verde a un salvataggio lampo utilizzando il KfW, Kreditanstalt für Wiederaufbau, braccio finanziario del governo, simile alla nostra Cdp, che prende il 38 per cento dell’istituto. Non è l’unico aiuto di stato, anzi. Dresdner Bank, arrivata nel 2009 sull’orlo del fallimento, viene fusa nella Commerzbank, ma l’operazione impiomba i conti della seconda banca del paese che verrà salvata con il fondo pubblico SoFFin riesumato dal governo di Berlino.

 

L’Unione europea, dunque, s’è mossa in base agli interessi nazionali, spesso in conflitto l’uno con l’altro. Dopo il fallimento della Lehman Brothers, nell’autunno del 2008, Christine Lagarde, ministro delle Finanze francese, propone un intervento coordinato ispirato al Tarp americano, ma riceve un secco “no” da Angela Merkel che si batte fino in fondo per proteggere soprattutto gli istituti locali, politicamente sensibili, e riesce a tenerli fuori dalla sorveglianza della Bce. Una simbiosi tra governi e banche (che hanno in portafoglio la gran parte dei titoli di stato), i cui effetti perversi vengono alla luce con la crisi dei debiti sovrani. Il fallimento della Grecia mette in moto un processo di vendita a catena che colpisce gli altri paesi deboli: anche il collasso dell’Italia è segnato dalla consistente cessione di Btp da parte di Deutsche Bank e delle grandi banche francesi, ma lo stesso accade con la Spagna.

 

Dopo il crollo del sistema bancario cipriota, la Ue escogita un sistema di risoluzione dei fallimenti a carico prima degli azionisti, poi degli obbligazionisti, infine dei risparmiatori che hanno depositi oltre i 100 mila euro. E’ il bail-in (paga chi è dentro, azionisti e obbligazionisti) rispetto al bail-out (paga chi è fuori, in genere i contribuenti). Sembra più rispettoso dei criteri di mercato, ma nasconde effetti perversi (depositanti e azionisti sono essi stessi contribuenti e finiscono per pagare due volte). E soprattutto solleva la domanda di fondo: ma pagano anche i banchieri?

 

In questi anni, soprattutto dal 2011, le banche europee hanno cercato di rafforzarsi con aumenti di capitale anche consistenti. La Bce calcola che siano entrati in cassa circa 203 miliardi di euro, ma solo un terzo è rappresentato da azioni ordinarie cioè il capitale di migliore qualità. Dunque, l’intero sistema resta debole, non solo le aziende che non hanno superato la prova. Gli analisti di Bnp, Gildas Surry e Geoffrey de Pellegars, contattati da Bloomberg, parlano di 19 fallimenti tecnici: tra queste sette banche italiane, quattro greche, una spagnola. Deutsche Bank è anch’essa a rischio anche se ha aumentato il patrimonio di 8,5 miliardi in azioni, sostengono gli esperti di Lampe e Metzeler, due banche private tedesche.

 

Gli Stati Uniti si sono mossi in modo molto più rapido ed efficace. E il rischio che Wall Street diventasse un soviet non s’è verificato. Al contrario, in Europa le banche salvate dai governi sono ancora sul groppone dei contribuenti. Gli stress test della Bce sono uno strumento fondamentale, ma non bastano per aprire il sistema. Draghi batte spesso sulla necessità di ridurre il bancocentrismo, tuttavia ha davanti il muro di Berlino. Uno dei più noti economisti tedeschi, Norbert Walter, scomparso due anni fa, spiegava che “in Germania metà degli istituti di credito e delle casse di risparmio sono gestiti dallo stato fin dalla loro nascita. E noi tedeschi siamo molto orgogliosi di questo. I politici sono convinti che questa sia la strada giusta da percorrere per organizzare il nostro sistema; è quindi ovvio che nel momento in cui una banca va in rosso, lo stato deve intervenire”. Se è così, Draghi ha un compito sovrannaturale perché il suo nemico è addirittura il fantasma di Bismarck.

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