La raffineria libica di Mellitah, gestita dall'Eni (foto AP)

L'oro nero italiano non ci perde

Eugenio Dacrema

Ormai ci siamo. Dopo essere stata posticipata per interi anni da instabilità politiche e manovre dei paesi produttori, la fase di discesa strutturale dei prezzi petroliferi sembra essere finalmente arrivata.

Ormai ci siamo. Dopo essere stata posticipata per interi anni da instabilità politiche e manovre dei paesi produttori, la fase di discesa strutturale dei prezzi petroliferi sembra essere finalmente arrivata. A sostenerla sono numerosi fattori: la protratta stagnazione dell’economia europea, il rallentamento di quella cinese e degli altri emergenti e, soprattutto, quel milione di barili in più all’anno pompati sul mercato negli ultimi 3 anni dalla rivoluzione dello shale gas degli Stati Uniti che si apprestano a diventare il primo produttore mondiale. Di fronte alle inesorabili forze della domanda (stagnante quando non in diminuzione) e dell’offerta (in costante crescita perfino da paesi fortemente instabili come la Libia), nulla sembrano potere più perfino i rischi di instabilità posti dalla ferocia dello Stato islamico o le tensioni in Ucraina. Anzi, proprio quei paesi produttori apparentemente più a rischio sembrano aver deciso di abbandonare la politica del controllo dell’offerta – che in questi anni ha garantito la stabilità dei prezzi sopra i 100 dollari – per ingaggiare una vera e propria guerra per le quote di mercato. In palio ci sarebbero in primo luogo le quote di esportazione verso la Cina, diventata il grande driver della domanda mondiale, che in questi anni ha saputo giocare con le proprie importazioni spostandole da un produttore all’altro in modo da accaparrarsi i prezzi migliori. L’Arabia Saudita, che ha visto in pochi mesi le proprie quote di mercato cinese scendere dal 22,1 al 15,6 per cento, ha deciso di abbandonare la propria tradizionale funzione di stabilizzatore (solitamente al rialzo) dei prezzi, tagliando di un dollaro il prezzo alla vendita del proprio greggio in Asia nel tentativo di riappropriarsi delle posizioni perdute a Pechino. Un concreto atto di guerra contro quei produttori come Iraq e Iran (che da anni cercano di contenderle il mercato asiatico) e che potrebbe preludere a nuovi aumenti di produzione e nuovi tagli dei prezzi.

 

Ma di quanto diminuirà il prezzo? E in quanto tempo? Su questo gli analisti si dividono, ma non di molto. Secondo le dichiarazioni rilasciate alla Reuters dagli analisti di Commerzbank “i paesi Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) sembrano aver ingaggiato una vera guerra dei prezzi, abbandonando la loro politica coordinata di tagli alla produzione. Se questo comportamento si protrarrà rischiamo di vedere i prezzi scendere anche fino a toccare gli 80 dollari”. Ottime notizie quindi per i paesi importatori, come l’Italia, e per le loro partite correnti.

 

Brutte notizie, invece, per molti paesi esportatori o aspiranti tali. Fra questi ultimi, in particolare, alcuni paesi come il Brasile e il Canada dovranno infatti gettare la spugna sullo sviluppo di molti giacimenti lì diventati troppo costosi dopo il decremento dei prezzi. E l’Italia? Cosa ne sarà dei progetti di estrazione italiani previsti dal decreto cosiddetto “sblocca Italia”? Secondo Matteo Verda, ricercatore dell’Ispi specializzato in questioni energetiche, il caso italiano è molto diverso da quello del Canada o del Brasile: “I giacimenti italiani non presentano nessuna delle costose complicazioni tecniche che caratterizzano quel tipo di progetti canadesi o brasiliani. La maggior parte dei progetti nostrani resterebbe infatti economicamente vantaggiosa anche con un decremento dei prezzi intorno agli 80 dollari al barile”. Secondo Verda, infatti, quasi tutte le nuove concessioni italiane sono state assegnate o sono in via di assegnazione. “Lo sblocca Italia avrebbe la sola funzione di velocizzare un processo in corso già da tempo. In questi anni, infatti, compagnie di tutto il mondo, da Eni a Shell, Total a Esso, si sono interessate e hanno acquistato diritti di trivellazione in diverse zone del paese, soprattutto per i giacimenti petroliferi della Basilicata e per quelli di gas e petrolio offshore nel mare Adriatico”. E’ importante ricordare, infatti, che “lo sviluppo di queste concessioni non peserebbe in alcun modo sulle casse statali – dice il ricercatore dell’Ispi – ma sarebbe interamente a carico delle aziende investitrici le quali si limiterebbero a pagare allo stato delle royalty sulla produzione. E’ fondamentale, quindi, che continui a esistere un margine di guadagno per queste aziende che permetta loro di rientrare dell’investimento. Un margine che non sarebbe annullato nemmeno nelle più pessimistiche previsioni sul prezzo del greggio attualmente in circolazione”.

 

[**Video_box_2**]Nel frattempo i timori si addensano anche sui paesi produttori i cui bilanci statali dipendono dal prezzo del greggio. Le conseguenze di una brusca diminuzione dei prezzi, infatti, potrebbe colpire direttamente le casse e la stabilità di paesi come l’Arabia Saudita, il Bahrein o l’Algeria che in seguito all’ondata di proteste del 2011 hanno notevolmente incrementato la propria spesa pubblica per calmare il malcontento della popolazione. Situazione analoga per la Russia di Putin, altro grande produttore mondiale, che ha nel settore oil & gas la più importante fonte di entrate del budget statale. L’economia russa, già sotto forte pressione a causa delle sanzioni occidentali, potrebbe trovarsi presto in una situazione critica. Insieme a un sospiro di sollievo per i consumatori, il riequilibrio al ribasso dei prezzi dell’energia potrebbe quindi portare con sé anche un possibile ribilanciamento degli equilibri internazionali a discapito dei paesi produttori.


Eugenio Dacremaè ricercatore presso l’Università degli studi di Trento

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