Matteo Renzi (foto LaPresse)

Mondi in manovra

Alberto Brambilla

La finanziaria che taglia tasse e spese irrita le regioni. Ecco cosa ne pensano Taddei e Fassina

Roma. La manovra monstre del governo Renzi da 36 miliardi verrà discussa a Bruxelles, ma già suscita dibattito sia all’interno del Partito democratico sia fuori di esso. Per la prima volta dall’inizio della crisi vengono tagliati 18 miliardi di imposte finanziati con una riduzione delle spese per 15 miliardi di euro e maggiore deficit. Gli imprenditori giubilano: vedono un “sogno” che si realizza nell’abolizione della componente sul lavoro dell’Irap, odiatissima. I sindacati invece mugugnano: la Cgil in particolare considera fumo negli occhi la conferma per l’anno prossimo del bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti e la deducibilità dei contributi per i neo assunti con contratto a tempo indeterminato, nonostante ciò lasci pochi alibi alle imprese affinché tornino ad assumere. La critica del segretario Susanna Camusso si concentra su quei quattro miliardi di tagli ai trasferimenti agli enti locali che per la metà verranno tolti alla sanità. La sponda critica arriva dai governatori delle regioni e Sergio Chiamparino che li rappresenta ieri ha definito quei tagli “insostenibili” a meno che non si voglia costringere le regioni ad aumentare le imposte o tagliare le prestazioni sanitarie. Non scherziamo, ha risposto in buona sostanza il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con una serie di dichiarazioni postate in serie su Twitter: “Non ci prendiamo in giro. Se vogliamo ridurre le tasse, tutti devono ridurre spese e pretese” – “Comincino dai loro sprechi anziché minacciare di alzare le tasse #noalibi” – “Tagliare i servizi sanitari è inaccettabile. Non ci sono troppi manager o primari? E’ impossibile risparmiare su acquisti o consigli regionali?”.

 

Partiamo da qui, interrogando due esponenti di due anime diverse e per molti versi contrapposte del Partito democratico. Quella maggioritaria, renziana, rappresentata dall’economista Filippo Taddei, consigliere economico del Pd e di Palazzo Chigi, già professore alla Johns Hopkins di Bologna. E quella minoritaria rappresentata da Stefano Fassina, ex viceministro dell’Economia con Letta, laureato all’Università Bocconi di Milano.

 

La spesa sanitaria è vexata quaestio. Fassina parte dalle macrostatistiche: “Abbiamo la spesa sanitaria tra le più basse dell’Eurozona. Questo vuol dire che non ci sono sprechi da eliminare? Ovviamente no. Ma ci sono servizi che dovrebbero essere sostenuti, se vogliamo che la Sanità pubblica sia ancora un servizio universale”. Tutt’altro, obietta Taddei in questa intervista parallela. Di revisione della spesa pubblica, Sanità compresa, “ne parliamo da mesi, abbiamo fatto una specie di piano di ristrutturazione della macchina dello stato” ma deve essere uno “sforzo collettivo” che riguarda lo stato centrale, i ministeri “hanno dato un contributo”, ma anche i comuni, le province e, in questo caso, le regioni devono farlo. Ai governatori Taddei riserva due opzioni: “Scegliere di penalizzare il servizio, oppure raccogliere la sfida”. Dove la Sanità è tutto sommato ben gestita, come l’Emilia Romagna di Taddei, sarà più complicato farlo ma altrove è necessario. D’altronde, aggiunge il consigliere economico del Pd, schermirsi dietro la riduzione delle prestazioni sarebbe “ammissibile” qualora si fosse fatto “tutto il possibile per risparmiare e ridurre le inefficienze”, ma siccome non è così… Va bene, ma – fa notare Fassina – la spesa corrente è già stata compressa da Monti e Letta; farlo oggi, ancora, per giunta con quindici miliardi di tagli e l’aggravio sulla Sanità, “significa intervenire in modo pesante, iniquo, regressivo sulla vita dei cittadini e giocoforza incidere sul welfare”.

 

Vogliamo dunque derubricare qualsiasi tentativo di intaccare sprechi e inefficienze a smantellamento dello stato sociale? “Facciamolo pure, ma così si semplifica la realtà – dice Taddei – Se in primis non efficientassimo la spesa pubblica, non potremmo ridurre i costi del lavoro come promesso e, in seconda battuta, presto o tardi altre forze politiche lo farebbero per noi. E così avremo tagliato ma non conserveremo i servizi pubblici che vogliamo. Siamo convinti, come penso la maggioranza dei cittadini italiani, che sprechi ce ne siano molti e correggibili. E questa forse è la più grande sfida per la sinistra italiana che penso debba essere la forza politica più feroce e la più drastica nel combattere sprechi e inefficienze”, dice il consigliere di Renzi. Taddei è convinto che “essere di sinistra” significhi anche questo e passi dalla volontà di “sprigionare il potenziale dei cittadini”, così come dal lavoro passa “l’avanzamento nella vita quotidiana” e la crescita passa dagli investimenti.

 

[**Video_box_2**]Perché, dice Taddei, la filosofia della manovra governativa sta nella volontà di liberare le forze produttive: “Senza avventurarsi nel gioco dei numeri e delle previsioni bisogna riconoscere l’impostazione”. L’analisi riconosce che sono venuti a mancare gli investimenti privati (meno 80 miliardi dal 2008 a oggi) e li creano gli imprenditori che decidono di creare il proprio futuro in Italia piuttosto che altrove, e i fattori per scegliere sono due: la tranquillità di sapere che uno stato fa la sua parte (vedi il taglio dell’Irap) e di potere contare su un paese che offre un bagaglio di competenze e professionalità, cioè capitale umano, per potenziare e rendere produttivo quell’investimento (vedi sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato). Vogliamo sviluppare quelle competenze che erano così diffuse un tempo ma che sono calate a causa della crisi e di questo scellerato mercato del lavoro che ci troviamo a gestire (vedi art. 18)”. Qui si sente odore di turboliberismo, direbbe Fassina, che replica: “C’è una filosofia di politica economica molto diversa nel governo. C’è chi è convinto che si debbano togliere lacci e lacciuoli, che pure in qualche misura vanno eliminati, e che prima o poi gli animal spirits arriveranno. Temo tuttavia – dice l’ex viceministro dell’Economia – che questa linea abbia trovato smentite molto rilevanti in questi anni”.

 

Innanzitutto Fassina giudica la manovra recessiva e regressiva: “Oggi la priorità va data sì agli investimenti, ma agli investimenti pubblici o con una componente pubblica significativa a fare da traino affinché possano partire subito, in piccole opere, aziende edilizie che facciano lavorare le imprese”. Insomma così si sbaglia mira, secondo Fassina, come con la riduzione della fiscalità per le aziende, “risorse che si sarebbero dovute legare a imprese innovative in grado di migliorare il livello della nostra produttività”. E poi, in definitiva, aggiunge Fassina: “La priorità deve essere il sostegno alla domanda aggregata”, ovvero la domanda di beni e servizi che, se manca, rende inefficace qualsiasi tentativo di convincere le imprese a investire e assumere. Taddei replica che non è veritiero dire che gli investimenti pubblici languono – come faceva notare anche il Corriere della Sera – “guardiamo al miliardo conferito per sbloccare il patto di stabilità interno, stiamo parlando di risorse a disposizione dei comuni proprio per realizzare investimenti. E poi non basta dire che c’è bisogno di domanda aggregata. Tutti vogliono creare crescita, il problema è come generarla”.

 

Se poi si chiede ai due come abbia fatto il governo a trovare le risorse per fare quello che nessuno aveva fatto prima, Fassina sostiene che l’esecutivo non potrà fare a meno di tagli lineari. Mentre Taddei, anziché aprire il discorso “coperture”, preferisce guardare al capitale politico che Renzi è riuscito a sprigionare: “Pensiamo agli ultimi governi. Silvio Berlusconi ebbe un grande capitale politico ma non lo investì, ad esempio, nell’efficienza dello stato. Con la crisi, e l’emergenza, Monti non è riuscito a convincere l’Italia a cambiare ma ha fatto accettare alcuni cambiamenti obtorto collo a un paese spaventato. Non voglio dire che non ci fosse il bisogno di agire ma che furono introdotte riforme sull’onda della paura. Renzi ha investito il capitale politico in un certo tipo di cambiamento che emerge dalla finanziaria e dalla riforma del lavoro”. Ed è questa ricchezza che il governo rischia, semmai, di perdere, “ma non saremo ambigui nello spiegare la nostra scommessa facendo in modo che stato sociale, Pubblica amministrazione e governo siano orientati a incoraggiare il lavoro offrendo ai cittadini un modo per farlo: ma nell’Italia del 2014 non del 1985”, conclude Taddei.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.