Sergio Marchionne (foto Ap)

Tra nostalgia e nuovismo, Marchionne arriva a Wall Street

Stefano Cingolani

Perché la nuova Fiat deprime i romantici (l’ex manager Ruggeri) ma eccita i rampanti del mercato. Buon debutto. Wsj: l'Ad "uomo che ha soffiato nuova vita in Chrysler e risanato la Fiat, entrambe sulla soglia del cimitero" prima del suo arrivo.

La Fiat ha deciso di fondersi con Chrysler, di annegare il suo nome e la sua storia nell’inquietante, almeno per me, logo Fca, di lasciare il Lingotto di mio nonno, di mia mamma, di mio papà, di abbandonare la mia Mirafiori, di voltare le spalle a Torino, di ritirarsi dall’Italia, soprattutto e lo dico brutalmente di tradirmi”. Riccardo Ruggeri nell’introduzione al suo ultimo libro “Fiat una storia d’amore (finita)” in uscita per Grantorino (la casa editrice che lo stesso Ruggeri ha fondato) rimpiange il tempo perduto. Il Wall Street Journal, al contrario, saluta il tempo ritrovato: “La Fiat comincia una nuova èra con la quotazione a Wall Street”, scrive, e tutto ciò grazie a Sergio Marchionne “l’uomo che ha soffiato nuova vita in Chrysler e risanato la Fiat, due produttori di auto sulla soglia del cimitero prima che lui ne prendesse il comando”. Per Ruggeri scompare in una nuova entità difficilmente definibile, la sua Fiat, quella dove ha cominciato in officina per diventare un alto dirigente di successo. E Marchionne ha consumato una rottura che è una sorta di tradimento. Per il Wsj, al contrario, la Fiat continua a vivere, anche se non è più quella di prima, perché Marchionne vuole che non sia più considerata una impresa soltanto italiana, ha capito che l’eredità era una palla al piede, “tanto che voleva chiudere molti degli impianti italiani non profittevoli, ma i suoi piani sono stati bloccati dai sindacati”. Chi ha ragione? Siamo di fronte a due opposte percezioni o a una doppia verità? La differenza è frutto di un vero e proprio iato storico.

 

La verità americana guarda a un presente in continua trasformazione, a una impresa che si rigenera: l’Araba fenice e Proteo sono i due miti di questo capitale meticcio e déraciné. Ruggeri, sia chiaro, non si chiude nel passato, ma il suo capitalismo è fatto di fabbriche, di lamiere, di operai in tuta, è produzione di macchine a mezzo di macchine. Al di là delle abissali differenze di carattere e di stile, quel che davvero rimprovera a Marchionne (il “bad guy” della sua narrazione) è di non aver investito in nuovi modelli durante la crisi, come hanno fatto Volkswagen e Toyota le sue imprese modello nel campo automobilistico. Naturalmente occorre che qualcuno ci metta i soldi e gli azionisti hanno avuto il braccino corto, lo riconosce Ruggeri che pure mostra ammirazione per le capacità di John Elkann, l’erede designato dall’Avvocato Agnelli. E’ una critica importante. Fabbrica Italia, il fantasmagorico piano del 2010 che prevedeva 20 miliardi di investimenti, s’è dissolto nell’aria. La 500 era già nel cassetto anche se Marchionne è stato bravo a rilanciarla. Così come è successo per la Jeep Grand Cherokee, l’altro modello di maggior successo del nuovo gruppo Fca. Ruggeri ha ragione, ma c’è un’altra storia che l’autore conosce bene. Negli anni 90 la Fiat era in mano a Paolo Cantarella, un ingegnere della vecchia scuola piemontese, il quale sosteneva il primato del prodotto che andava imposto al cliente. Investì una grande quantità di miliardi, ma oltre alla Punto, un vero successo, nessun nuovo modello funzionò. L’idea di inseguire la gamma alta, eterno punto debole della Fiat, si è rivelata dispendiosa e perdente; così come la omologazione forzata di marchi come Lancia e Alfa Romeo.

 

Fin dall’inizio Marchionne (lo ha spiegato anni fa sulla Harvard Business Review) ha voluto rovesciare “la cultura degli ingegneri”, mettendo in primo piano il venditore. Ruggeri lo chiama “un manager omeopatico”, un facilitatore. Certamente dà il meglio di sé quando si tratta di chiudere un affare (come con General Motors o con Chrysler). Non è uomo di automobili. Ma non lo era nemmeno Vittorio Valletta che si considerava, come racconta Ruggeri, il maître e non lo chef, e lasciava le cucine al direttore generale; per non parlare di Cesare Romiti. Entrambi hanno interpretato i loro tempi e gestito una impresa-sistema, uno stato nello stato, definizione di Antonio Gramsci e di Benito Mussolini valida ben oltre il fascismo. Quella Fiat che faceva politica in prima persona, anche politica estera, non c’è più perché non c’è più l’Italia che la sosteneva. E’ finita nel 1992 con il crollo della lira e il collasso della Prima Repubblica; non a caso il declino comincia allora, come riconosce Ruggeri. Quando poi scompaiono i fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, la centenaria storia si chiude. Si poteva decidere di mollare tutto, invece Elkann ci riprova con Marchionne e dopo dieci anni diventa azionista di un gruppo multinazionale. Anzi dell’unica multinazionale dell’auto perché gli altri grandi gruppi restano ancora plasmati e protetti dagli stati e dai sistemi dove sono radicati.

 

L’operazione Chrysler è stata astuta, senza dubbio. Marchionne l’ha comprata senza metterci un centesimo e ha ottenuto da Barack Obama un sostegno politico la cui origine e natura ancora sfuggono. Tuttavia ha restituito i quattrini ai contribuenti americani e ai sindacati. Due circostanze sulle quali molti, tra i quali lo stesso Ruggeri, erano fortemente scettici.

 

[**Video_box_2**]Il manager in pullover nero ha contribuito a cambiare le relazioni industriali negli Usa e in Italia, ma non si è inventato la nuova organizzazione del lavoro, né Valletta si era inventato il taylorismo. Il  World class manufacturing nasce alla Toyota, così come gli impianti piccoli e leggeri, trasformati in centri di puro assemblaggio criticati da Ruggeri, che i giapponesi hanno sperimentato non in Cina o in Messico, ma in Tennessee. L’apolide Marchionne non ha problemi a cogliere fior da fiore per creare il suo mix. Ieri lo sbarco di Fca a Wall Street è stato salutato con un più 8 per cento, e più 3 per cento a Piazza Affari, salvo poi indietreggiare con la volatilità del listino americano che ha depresso le Borse europee. Ruggeri dice di ragionare da investitore (obbligazionista); troppo poco, non si capirebbe quella passione che è la parte vibrante del libro. Per fortuna ragiona da uomo Fiat, quella Fiat che perde in parte la sua sovranità, come è accaduto all’Italia. Un destino parallelo: la nazione e l’azienda, vissute in simbiosi per un secolo, vengono sussunte nel mondo globale. Sulla Fiat e il suo ruolo, gli italiani sono sempre stati divisi. Oggi come oggi prevale chi pensa che i contribuenti hanno gettato troppi quattrini nelle tasche degli Agnelli o nel pozzo del Lingotto. La storica classe operaia è stata dispersa dalla crisi o trafitta dall’ineluttabile freccia del tempo. Nessuno nella generazione di Renzi ha mai visto la Mirafiori di Ruggeri. Nessuno ha mai visto nemmeno la “fabbrica caserma” di Ford o la “fabbrica laboratorio” delle Brigate Rosse. E non è detto che sia un male.

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