Sergio Marchionne (foto Ap)

Marchionne via nel 2018

Quel che Mr. Pullover farà dopo aver svecchiato l'Italia

Ugo Bertone

“Me ne andrò alla fine del 2018”. Sergio Marchionne a sorpresa anticipa in un’intervista a Business Week la data della sua uscita dai vertici di Fiat Chrysler: a 66 anni, una volta completato il piano 2014-’18, lascerà al successore o, più facile, a un team di manager il bastone del comando di Fca.

Milano. “Me ne andrò alla fine del 2018”. Sergio Marchionne a sorpresa anticipa in un’intervista a Business Week la data della sua uscita dai vertici di Fiat Chrysler: a 66 anni, una volta completato il piano 2014-’18, lascerà al successore o, più facile, a un team di manager il bastone del comando di Fca, l’acronimo di Fiat-Chrysler cui presto si dovrà abituare il pubblico italiano. Magari, anche se non è facile crederlo, per riprendere gli studi in Fisica teorica, una delle tante passioni del manager che in gioventù passava le notti su Cartesio.  “Certamente farò qualcos’altro – si è limitato a rispondere – ma di sicuro non mi dedicherò a un altro turnaround: largo ai giovani”. Una chiosa “rottamatrice” che solo per un attimo apre a scenari da fantapolitica.

 

L’annuncio cade, non a caso, a pochi giorni dal pomeriggio del 13 ottobre, quando il ceo in pullover suonerà a Wall Street la campanella che segnerà la conclusione della prima giornata del gruppo nella Borsa americana, un mercato che, in materia di leadership, è assai esigente: Marchionne, prima di affrontare gli investitori americani, ha dovuto chiarire che affronterà a tempo debito, più prima che poi, l’assetto futuro del gruppo. Certo, è presto per disegnare il percorso verso il trono dopo 14 anni di governo assoluto, il più lungo nella storia dell’azienda dai tempi di Vittorio Valletta. Di sicuro, al suo posto non ci sarà John Elkann: la formula migliore, spiega il leader del clan Agnelli, consiste nel distinguere la presidenza, appannaggio dell’azionista, dal manager. O dai manager, perché Marchionne non esclude che nei prossimi anni si riveli più utile ridisegnare la struttura organizzativa di una società a tre teste, nord America, Europa e America latina, in attesa della quarta, quella asiatica. Facile che alla fine prevalga uno o più dirigenti scelti tra i 27 che da anni affiancano Marchionne nel Gec (Group executive council), con il discutibile privilegio di esser svegliati, magari nel cuore della notte, dalla chiamata di uno dei cinque cellulari del manager: forse Richard Tobin, numero uno di Cnh, l’azienda dei camion e delle macchine agricole; forse Mike Manley, numero uno di Jeep; oppure Cledovaldo Bellini, da sempre il regista della Fiat brasiliana. L’unico candidato italiano è Alfredo Altavilla da Taranto, il braccio destro delle operazioni più delicate. Ma contro di lui gioca il passaporto. E’ assai difficile che il nuovo leader di Fca, azienda globale che in Italia oggi produce solo il 15 per cento dei suoi ricavi, possa essere italiano. Già, al di là dei nomi, una cosa è certa: chiunque sia l’eletto, indietro non si torna.

 

[**Video_box_2**]Il Natale in cui parlò dell’oceano da varcare - La vecchia Fiat del 2004 è seppellita una volta per tutte, non solo perché il fatturato è salito di cinque volte (sette nel 2018) ma perché la multinazionale Torino-Detroit è più lontana rispetto al vecchio Lingotto dell’Inghilterra di Margaret Thatcher rispetto a quella anni Settanta. Eppure, meno di sei anni fa, Marchionne appariva agli occhi dei manager Fiat accorsi a Lingotto per la festa di Natale del 2008 più o meno come il marziano di Ennio Flaiano. “Quel giorno – ricorda Giuseppe Berta, docente in Bocconi e storico di casa Fiat – Marchionne spiegò con chiarezza che la Fiat avrebbe avuto un futuro solo fuori dall’Italia. Allora non lo capì quasi nessuno. E molti, ahimè, stentano a capirlo pure oggi”. Eppure, la decisione di varcare l’oceano ha avuto senz’altro un valore storico. “Non era questione di alleanze finanziarie, nuovi modelli o aiuti di stato. L’unico modo per salvare la Fiat richiedeva che l’azienda uscisse dalla sua pelle italiana”. Come è avvenuto anche sul fronte delle relazioni industriali, nonostante il fuoco di fila della tradizione italiana, forte nei sindacati, nella cultura ma anche tra gli imprenditori. Si sa come è andata a finire. Anzi, come potrebbe finire, vista la crisi di rappresentanza acuita dalle mosse di Matteo Renzi. Non è questione che preoccupi più di tanto super Sergio. “Semmai – conclude Berta – a preoccuparlo è l’incapacità dell’Italia di oggi a reagire alla crisi”.            

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