Vladimir Putin (foto Ap)

Se il capo della Corte costituzionale russa difende la servitù della gleba

Anna Zafesova

Demodernizzazione. Il termine è entrato da poche settimane nel dibattito dell’intellighenzia moscovita, ma sta già conquistando spazio, riconosciuto da molti come l’etichetta più concisa ed efficace da appiccicare a tutto quello che sta accadendo alla Russia.

Milano. Demodernizzazione. Il termine è entrato da poche settimane nel dibattito dell’intellighenzia moscovita, ma sta già conquistando spazio, riconosciuto da molti come l’etichetta più concisa ed efficace da appiccicare a tutto quello che sta accadendo alla Russia. Al più alto livello, come la teoria di Vladimir Putin che la Russia si pone a salvaguardia dei “valori tradizionali” contro la degradata Europa, fino alle folli iniziative legislative dei deputati della Duma che vogliono proibire tutto, dalle mutande di pizzo allo spinello, alla miriade di incidenti tragicomici, come un gruppo di ragazzi in kilt picchiati in una strada della Siberia perché ritenuti gay o la campagna stampa contro le riviste patinate che promuovono mode straniere. L’orologio della storia sta girando a ritroso e torna o sta per tornare tutto quello che sembrava morto inseme all’Urss, dal divieto di libero espatrio alle lezioni di addestramento militare nelle scuole d’obbligo, dalle campagne contro gli artisti dissidenti alle tessere annonarie, proposte dai comunisti per tutelare i più poveri.

 

Il cocktail di revival sovietico e nostalgia monarchica, nel quale il Cremlino agita e mescola lo stemma e la bandiera dei Romanov e l’inno staliniano, da propaganda sta diventando fenomeno di costume. Il più affollato evento degli ultimi tempi alla Duma è stata la conferenza di un esperto di moda che ha consigliato alle onorevoli di indossare il “kokoshnik”, un copricapo a cresta con nastri e perle che non si vedeva fuori dai concerti folcloristici dal Settecento. Ma sta diventando anche un’ideologia strutturata. Che ha trovato il suo riassunto clamoroso, qualche giorno fa, in un articolo del presidente della Corte Costituzionale Valery Zorkin sulla Rossiyskaya Gazeta, l’organo del governo, in difesa della servitù della gleba. Un sistema durato fino al 1861 e denunciato dai più grandi pensatori dell’epoca come la vergogna nazionale è stato definito dal decano della politica russa “il principale perno dell’unità della nazione”. L’abolizione della schiavitù che “aveva diversi difetti”, ammette il costituzionalista, ha scardinato le basi della società producendo un dissesto di cui si pagano le conseguenza tuttora.

 

[**Video_box_2**]Per capire l’effetto delle esternazioni di Zorkin basta immaginarsi il presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti che mette in discussione l’abolizionismo di Lincoln. Ma la Russia è un paese dal passato imprevedibile, e la principale lezione che ne trae, secondo il politologo Vassily Zharkov, è la paura delle riforme: “Il Novecento è stato un trauma per tutti noi”. Dopo aver messo in discussione il 1991, il 1989, il 1985 e il 1917, ora tocca al 1861 e all’orizzonte appare la desacralizzazione di Pietro, lo zar che alla fine del Seicento impose alla Moscovia la svolta europeista. Ma la ricerca di un passato sempre più mitologico è connessa con l’attualità del 2014. Mentre l’economia ristagna in attesa di franare in una crisi, invece di investimenti e modernizzazione si assiste a un progressivo aumento del peso delle grandi corporazioni statali e dell’energia. “I cittadini russi non sono contribuenti, lo stato è contribuente di se stesso”, afferma il politologo Stanislav Belkovsky: “Estrae e vende petrolio e gas e distribuisce il ricavato agli abitanti”. La struttura sociale si sta primitivizzando di conseguenza, e invece di muoversi verso  una società moderna complessa retta da una concertazione di forze, ceti e interessi diversi il Cremlino di Putin propone il modello arcaico del popolo – ovviamente unanime – e dello zar come tutore paterno. L’opinionista Serghey Shelin, uno dei maggiori teorici della “demodernizzazione”, nota come il governo progetta di tagliare le spese su istruzione, ricerca, cultura e sanità, i motori dello sviluppo del “capitale umano” moderno, mentre la mobilità sociale è stata bloccata da “una casta chiusa di privilegiati che hanno accesso di monopolio a risorse che gli altri possono solo sognare”.

 

Un sistema di governo che una modernizzazione non può che mettere in discussione fino alla rottamazione. Secondo Igor Fedyukin, professore di storia dell’800 alla Scuola superiore di economia di Mosca, si tratta nientemeno che di una “reinvenzione dello stato russo”. Che da Pietro a Caterina ai bolscevichi ai Chicago boys ha sempre proposto ai suoi sudditi un paradigma di progresso. Declinato in modi diversi, ma quasi sempre coercitivi. Da più di tre secoli il governo rimproverava i russi di essere arretrati e li spingeva a colmare il gap con l’Europa. L’ultimo tentativo di modernizzazione dall’alto è stata la perestroika e il traumatico passaggio al capitalismo. Ma ora la secolare spaccatura tra un’élite europeizzata e il popolo considerato selvaggio è stata sanata: “Per la prima volta lo stato russo non chiede ai russi di diventare qualcosa di diverso da quello che sono, più illuminati, operosi o morali. Dice loro che vanno bene così come sono”. “I russi sono tornati proprietà del signore, ma lo riconoscono come uno di loro”, è la diagnosi spietata di Leonid Bershidsky, ex direttore del quotidiano economico Vedomosti autoesiliatosi in Germania.

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