I poliziotti che vivono nei porti dormono poco e sono sempre reperibili. Spesso è già notte, quando si ricomincia daccapo

Una guerra impari

Cristina Giudici

Nei porti dove sbarcano i migranti c’è chi deve distinguere  i disperati dai trafficanti di uomini. Un compito che toglie il sonno. Uno di loro è stato addestrato in un solo giorno senza conoscere le leggi del mare perché viene da un villaggio della Nigeria.

Il Mare monstrum degli scafisti è grande come il Mediterraneo e ogni sbarco è differente. Il sostituto commissario Carlo Parini, che dirige il Gicic, il Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della procura di Siracusa, ha un’ossessione investigativa che lo tormenta da anni. Perché dei trafficanti in Libia e in Egitto lui sa tutto: dove abitano, come si muovono, dove vivono, come si spostano, come agiscono, come pensano. E sa anche che non può fare niente per fermarli, perché i poliziotti egiziani non collaborano mentre a Tripoli… be’, a Tripoli ora c’è la guerra, il caos, ci sono i briganti, i miliziani jihadisti che fanno paura a tutti. Certo, nel suo canestro da giocatore di basket di porto, qualche palla ce l’ha messa. Come quando, qualche anno fa, è riuscito a mettere in collegamento tre sbarchi avvenuti contemporaneamente – in Sicilia, sul litorale romano e a Grado – per fermare un’organizzazione che si era affidata a un clan mafioso. O quando, più recentemente, è riuscito a convincere a parlare uno scafista, uno di quelli con molti galloni guadagnati sul campo di questa sporca guerra mai dichiarata.

 

Per ora è solo una promessa, ma il commissario che conosce i tempi dell’attesa, lo aspetta. Dopo che al suo terzo sbarco – Abil, così si chiama lo scafista più alto in grado che abbia mai intercettato – è uscito dal gruppo dei profughi arrivati in Italia, lo ha cercato e gli ha detto in italiano: “Capo, sono qui”. E sorridendo ha alzato le mani in segno di resa. Davanti a una condanna di quattro anni (la seconda) ha accettato di collaborare, ma solo ora, dopo anni di inseguimenti, intercettazioni, colloqui, scambi obliqui. E anche un po’ di empatia umana. Ma questi sono eventi rari. Di solito gli scafisti non rivelano nulla sulla propria organizzazione.

 

La caccia allo scafista, talvolta è come un gioco dell’oca. Riporta sempre allo stesso punto. E va modulata, a seconda delle situazioni. Perché poi, se si scopre che uno di loro è stato addestrato in un solo giorno davanti alle coste libiche, nulla conosce delle leggi del mare perché viene da un villaggio della Nigeria, ed è partito dalle coste libiche senza una bussola, solo per poter viaggiare gratis, ed è riuscito a portare in salvo tutti i passeggeri su un gommone sgonfio, può capitare che gli venga concesso pure l’onore delle armi. Come è successo di nuovo nel porto di Augusta, al terzo sbarco e a cui il Foglio ha assistito alla fine di agosto. Un interprete, che ha interrogato il presunto scafista per caso, ha deciso di sua iniziativa di lasciarlo andare. “L’ho fatto perché me lo hanno chiesto i passeggeri, è stato coraggioso e li ha portati in salvo, era stremato quanto loro. Se lo meritava”, racconta un egiziano, che aiuta i poliziotti di questa mobile trincea d’acqua. “Anche lui era a suo modo un eroe”, spiega al Foglio.

 

[**Video_box_2**]Perché è facile dire “lottiamo contro gli scafisti”, ma la lotta contro il traffico è come cercare di incastrare in un puzzle tutte le tessere, sapendo che ne mancherà sempre qualcuna per comporre l’intera cornice. Nell’Interforze di Siracusa c’è anche un marocchino, Aziz, ausiliario della procura, che gestisce un popolare ristorante di kebab nel centro storico di Ortigia. Braccio destro del commissario Parini, ancora non ha dimenticato quella notte in cui, anni prima di Mare nostrum, nel 2010, insieme al commissario è riuscito a salvare dei bambini sequestrati e portati negli scantinati di una vecchia tonnara, tenuti in ostaggio e violentati per ottenere dalle famiglie il resto del pagamento. O di quei due pescatori egiziani che, rapito il proprietario della barca, si sono diretti verso la Sicilia. E dopo averlo lasciato legato e disidratato, sono scappati. Scafisti improvvisati, sono diventati assassini. Ora con Mare nostrum questi eventi sono più rari, ma si continua a morire davanti alle coste di Tripoli, e la macchina voluta dal governo italiano sembra su questo essere impotente. “Il mio unico sogno è mettere le mani addosso a un libico”, esclama con veemenza Aziz, “ma quei bastardi qui non arrivano mai”. E poi Aziz racconta ancora della soddisfazione ottenuta quella volta in cui lui e il commissario Parini, dopo aver tessuto con pazienza una trama da film noir, sono riusciti a mettere due organizzazioni di trafficanti di uomini l’una contro l’altra, concorrente, ed entrambe si sono annientate a vicenda, grazie a un loro infiltrato. Poche vittorie, però, contro tante, troppe, sconfitte. Aziz è convinto – come tanti che passano la vita nei porti a intercettare scafisti – che questo traffico dovrebbe essere considerato una guerra e per stroncarlo ci vorrebbe una forza militare o multinazionale che distrugga le basi dei trafficanti. “Sono pericolosi come terroristi di là dal mare”, osserva, sapendo di interpretare correttamente i pensieri di tutti (o quasi) i componenti della squadra dell’Interforze di Siracusa che poi assomigliano ai pensieri di tutti i poliziotti in trincea nei porti siciliani. La convinzione diffusa è che bisognerebbe abbattere i magazzini, i capannoni, le proprietà terriere dove i profughi vengono divisi per etnia e censo, tenuti prigionieri per mesi per poter fare un viaggio che adesso, grazie al soccorso degli italiani, dura anche soltanto dodici ore. E questo, come ormai notano in tanti, è un problema, perché gli aspiranti profughi finiscono per sentirsi invogliati dalla speranza di essere raccattati subito dagli italiani, salvati ancora al largo.

 

I poliziotti che vivono nei porti dormono poco e sono sempre reperibili. Spesso è già notte, quando si ricomincia daccapo. Anche nel porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, si sale in continuazione sulle navi che arrivano, a tutte le ore, e si intuisce già alla prima occhiata chi staccare dal gruppo e chi invece, se non è troppo stremato, è disposto a testimoniare. Gli investigatori percepiscono chi non ha sulla pelle l’odore di mesi o di anni di fuga, chi non alita paura; chi dice di essere palestinese e non lo è, chi ha mani callose per aver guidato, chi ha l’aria di avere avuto la vita di altri esseri umani nelle proprie mani, in mezzo alle onde del mare.

 

A Pozzallo, la squadra mobile di Ragusa, diretta dal commissario Antonino Ciavola, da mesi rende pubblico un bollettino di guerra sugli scafisti. Con dettagli sulle dinamiche delle traversate e le dichiarazioni dei migranti che hanno collaborato con la polizia perché tutti dovrebbero sapere cosa accade quando gli eroi della Marina militare rientrano nelle basi e nel limbo dei porti bisogna sorvegliare, punire, premiare, vigilare su ogni piccolo dettaglio. E in una delle tante notti che si susseguono quaggiù fra uno sbarco e un altro, mentre giornalisti e volontari si fanno distrarre da una nota di colore – un gatto bianco sbarcato in una cesta con una donna siriana-palestinese – un altro scafista è stato preso e portato via.

 

[**Video_box_2**]Il giorno dopo si ricomincia. Nessuno ha dormito, ma si va avanti, le bombe umanitarie continuano a scoppiare. E improvvisamente al porto di Pozzallo si odono delle grida, di solito dopo uno sbarco cala il silenzio, ma oggi invece scoppia un piccolo tumulto. I profughi vogliono linciare un trafficante di uomini che, durante i trasbordi da una barca all’altra, lanciava i bambini come pacchi postali, per fare in fretta: tanto nel pacchetto della traversata i bambini non hanno pagato il biglietto. Rischiava di far annegare i neonati. E allora adesso per quei disperati è arrivato il momento della vendetta. Grazie a questa ribellione vengono arrestati sette scafisti, e uno di quelli confessa, impassibile, pronunciando la frase di rito: “Voglio collaborare, datemi uno sconto di pena”. A volte chi confessa fornisce qualche dettaglio in più, non si rende conto di essere parte di un ingranaggio terrificante. Come ha fatto uno scafista qualche settimana fa, ci hanno raccontato al porto di Pozzallo, che sulla carretta poi inabissatasi nel mare ha trasportato esseri umani vivi insieme ai cadaveri. E nella sua mezza verità, lo scafista, durante l’interrogatorio, ha confessato di aver accettato di guidare la barca solo per riuscire a fuggire pure lui dalla Libia. Ha affermato di essere palestinese, descrivendo la scena di uomini armati, in divisa militare, che sulle coste libiche hanno picchiato e bastonato i fuggitivi e poi li hanno buttati su un gommone. “Non so se dormivano, erano tanti, tutti sdraiati, o se erano già morti, io pensavo solo a guidare. C’era un altro ragazzo della Guinea che doveva darmi il cambio, ma poi si è sentito male e ho dovuto tenere il comando da solo. Il viaggio è andato male, il mare era mosso e siamo stati in mare per molti giorni, non avevo una bussola, non sapevo dov’ero, avevo solo un satellitare per chiedere aiuto. Il tubolare perdeva aria, qualcuno cadeva in mare e non emergeva più. Ho svuotato taniche di benzina da usare come salvagente e qualcuno si è salvato…”. Questo è quanto ha confessato dopo essere sbarcato con i cadaveri, insieme ai sopravvissuti.

 

L’ultimo scafista arrestato a Pozzallo dalla squadra mobile di Ragusa il 10 settembre scorso è stato un tunisino. I soldi guadagnati per aver portato i profughi in Italia se li era cuciti nei pantaloni, per non farseli sequestrare all’arrivo. Alì Brabra, 41 anni, ha portato in Italia 250 eritrei. E deve essere stato facile riconoscerlo, visto che era l’unico, fra gli sbarcati, ad avere la carnagione più chiara. Unico maghrebino, in mezzo a 159 uomini, 55 donne, e 12 minori. Tutti africani, in maggioranza eritrei. Alì Brabra era già stato in Italia, nel 1999, sbarcato a Lampedusa. E dopo aver vissuto di espedienti, furto e ricettazione, era stato espulso. Ma Alì non si è scoraggiato. In dieci anni, dal 2004 al 2014, ha tentato di entrare in Italia sette volte, da ogni porto siciliano. Ad Agrigento, poi a Lampedusa, a Siracusa e perfino a Trapani. Espulso per sette volte, non si è rassegnato. E ci ha riprovato nelle vesti di scafista. Con una retribuzione alquanto modesta (700 dollari), per un viaggio che ai trafficanti ha fruttato 400 mila dollari, grazie ai 1.650 dollari pagati da ogni passeggero. Dopo 28 ore consecutive di indagini, interrogatori, deposizioni dei profughi che hanno accettato di testimoniare, il nuovo viaggio di Alì per aggrapparsi all’Europa si è concluso, per ora, in un carcere italiano.

 

Ed erano tunisini anche quelli arrestati nel porto di Augusta il 2 settembre. Mabrouk Shukri e Ben Ammar Tarik hanno tentato di dichiararsi palestinesi; poi, smentiti dai profughi, si sono chiusi nel loro mutismo. Hanno poco più di 20 anni, ma uno di loro è già al secondo viaggio. Viaggio facile, questa volta, perché guidavano una barca di pescatori a 135 miglia da Lampedusa. Intercettati dalla Marina militare, con 290 persone a bordo, dopo aver chiesto aiuto con un satellitare hanno atteso di essere condotti in porto. Arrestati grazie al racconto di un palestinese – oramai sono parecchi i palestinesi che scendono dalle navi – che in Libia è stato tenuto in un ricovero per animali per 55 giorni. E durante il viaggio è riuscito a dissetarsi grazie alle bottiglie d’acqua lanciate sulla carretta dall’elicottero di una petroliera, che li aveva avvistati.

 

Ci sono scafisti di ogni genere nel mercato degli schiavi del Terzo millennio: giovani che si fanno i selfie, come se fossero in una gita al mare, e i più anziani, impassibili e indifferenti, con i denti d’oro comprati con i soldi del traffico di esseri umani. I tunisini, secondo poliziotti e carabinieri, sono i peggiori. Reclutati dai libici, sono cinici, spavaldi, più aggressivi. E qualche volta persino armati. Oppure sono egiziani, come quello arrestato dal commissario Parini il 14 settembre, che appena è stato fermato, nel porto di Augusta, con cinico candore gli ha detto: “Capo, io ho finito la mia missione, ora posso tornare a casa?”. E poi ci sono quelli che vengono dalla Turchia, coi velieri. Gli ultimi scafisti appena rilasciati a Siracusa erano navigatori esperti, ucraini. Militari diventati scafisti che seguivano altre rotte, partendo dal Mar Nero. Scarcerati, poche settimane fa, erano sconcertati, perché in Ucraina non ci volevano tornare a combattere una guerra che non era la loro. E poi ci sono quelli che addirittura fingono di essere invalidi. Lesti a recitare il ruolo delle vittime, sebbene siano carnefici, al momento dello sbarco riescono a torcere il corpo per fingere di essere paraplegici. Anche se poi sono stati visti scappare, correndo, una volta arrivati in ospedale. “Uno l’ho seguito in ospedale, appena si è alzato dalla carrozzella gli ho detto: bene ora sei pronto per la galera”, ricorda ancora il commissario Parini nel suo ufficio sepolto di carte nella procura di Siracusa, dove nella sede dell’Interforze lavorano solo tre persone. Tre persone contro centinaia di trafficanti e migliaia di profughi che premono sulle coste. Sulle pareti del suo ufficio, le fotografie delle navi, le date, i nomi delle barche e dei diversi clan di trafficanti. E le frecce scritte a mano con un pennarello rosso per collegare i nomi delle barche sequestrate, i diversi alias degli scafisti, i luoghi, le date. E in un angolo, dietro la scrivania, le buste con gli effetti personali degli ultimi sommersi dalle acque. “Non sente l’odore della morte?”, chiede il commissario Parini, “io ormai mi ci sono abituato”, e poi confida con aria fatalista, e un tono amareggiato, di un somalo intercettato alcuni anni fa, a Lampedusa, di cui aveva intuito la pericolosità, che si rivelò essere un temibile jihadista, ma purtroppo la sua segnalazione finì sul tavolo di qualche burocrate del Viminale, che sottovalutò la sua informazione.

 

Parini allarga le braccia, impotente, ma non per questo rassegnato. Sa bene che adesso alla bomba umanitaria si aggiunge lo spettro dei terroristi islamisti dell’Is. “Arriveranno presto. Lo sappiamo. Ci stiamo preparando”, si era lasciato sfuggire un collaboratore della procura di Siracusa in un colloquio con il Foglio, all’inizio del nostro viaggio nei porti siciliani. “Li stiamo aspettando”, ci hanno detto con convinzione. E allora si capisce cosa accade quando Mare nostrum diventa un buco nero, con pochi uomini in trincea. Troppi profughi, da accogliere, troppi cattivi da intercettare. E con la paura del terrorismo, per ora un sussurro sommesso, che rimane confinato nelle riunioni in prefettura, nelle questure, nelle procure siciliane. Anche se a Siracusa è appena arrivata la notizia che sulle coste libiche, a Zuwara, a dirigere il traffico degli esseri umani ora ci sono anche i Fratelli musulmani, che potrebbero favorire le partenze degli islamisti.

 

E così i pochi poliziotti e carabinieri disposti sulla trincea mobile nei porti, ogni sera pregano che non succeda niente di davvero grave. Anche se tutti sono consapevoli che è solo questione di tempo. Perché accolti oltre 130 mila profughi, a quasi un anno dall’inizio della missione di Mare nostrum, il peggio, forse – e ci auguriamo che così non sia – deve ancora venire.
(secondo di due articoli)

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