Judith Leyster, “Due bambini con un gatto”, 1629 (collezione privata)

Il mio Sinodo

Stefano Di Michele

Una famiglia larghissima: c’erano gli zii d’America che con ogni lettera spedivano un dollaro. Ma anche una famiglia allargata: con le suore, il gatto e i compagni della sezione comunista.

Mia madre T. comprava cinquanta lire di pizza. Bianca. Perché, con cinquanta lire, di pizza rossa ce ne veniva proprio poca. Con la mozzarella, poi, non se ne parlava. La infilava in borsa, andava alla fermata dell’autobus – e aspettava. C’erano Nina, Santina, Angela (con Angela anche sua mamma, già anziana), Rosina, Lucia (la chiamavano “Ciola”), Nunzia… Ognuna aveva cinquanta lire di pizza bianca nella borsa. Avevano tutti dei vestiti scuri, con piccolissimi fiori blu, che si cucivano a casa da sole. L’autobus arrivava – era poco dopo l’alba. Salivano. La Nomentana era allora quasi un orizzonte ininterrotto di campi – mucche e pecore e certi cavalli che le donne sull’autobus guardavano come se fossero animali mitologici. Venivano tutte dalla campagna – dall’Abruzzo, dalle Marche – ma nella loro campagna cavalli non ce n’erano. Mucche, pecore, maiali – ma cavalli no. Arrivavano a Montesacro (piazza Sempione), e come pazienti operose formiche si sparpagliavano per le zone intorno. Mia madre prendeva una larga strada che costeggiava il fiume Aniene, arrivava fino in fondo, girava per una piccola stradina laterale. Era arrivata. La pizza bianca nella borsa era ormai fredda, ma non aveva importanza: non l’avrebbe mangiata prima di mezzogiorno. Tutti i giorni, ogni giorno così: pizza bianca, autobus, una casa che non era la sua. Puliva questa casa, mia madre. Anche altre case a volte puliva. Il fratello della signora dove andava a servizio era un famoso giornalista del telegiornale. Mia madre conservava una foto con lui, del giorno che i figli della signora avevano fatto la comunione. La mostrava orgogliosa – ci ho proprio parlato, è gentile, mi ha detto: grazie T. Quel giorno della comunione, raccontava, le avevano regalato cinquemila lire extra. (Molti, molti anni dopo: sera a Milano, cena tra giornalisti che stavano seguendo il congresso di un partito. L’uomo della foto è davanti a me, mi versa dell’acqua. Garbato, gentile, il fazzoletto nel taschino della giacca. Mi dice: D.M.-D.M.-D. M, mi dice qualcosa questo nome… Avrai letto qualcosa sull’Unità, dico io. Beh sì, dice lui, però è un nome che mi sembra di aver sentito da prima. Io non dico niente).

 

Mia madre a volte mi portava con lei. Allora comprava anche a me cinquanta lire di pizza bianca. Arrivavamo in questa casa, a Montesacro. Mi indicava una sedia: stai qui buono, non ti muovere, non parlare, per carità non toccare niente! Restavo fermo, immobile – anche il respiro, appena quello indispensabile. Guardavo – un ragazzino che guardava e non parlava. Ancora adesso, una vita dopo, preferisco stare fisicamente là fuori – anche a tavola con gli amici, a un certo punto allontano la sedia, osservo sempre un po’ in disparte. Mi fa sentire sicuro, mi fa sentire al mio posto. (C’è una foto, di quegli anni. Mia madre è sulla porta della casa dove abitavamo. E’ una casa in tufo, senza forma, un piccolo quadrato di un piano appena. Le mura sono già vecchie. La strada non esiste – solo sterrato di polvere o fango, a seconda delle stagioni. C’è un piccolo cancello di legno: forse c’era un piccolo orto, lì dietro). Mia madre non aveva abbastanza artigli per il mondo.

 

Mio padre G. andava via sempre quando era buio. Mia madre gli preparava qualcosa da mangiare, pane e frittata, dei fagioli. Stava via tutto il giorno. Al cantiere – dove trovava un cantiere: un mese qui, due settimane altrove. Non ha mai imparato a guidare, mio padre. Andava con gli altri carpentieri e muratori – i mariti,i fratelli di Nunzia, Santina, Nina. Lo vedevo la sera – quasi sempre buio anche quando tornava. Erano lontani, quei cantieri. Aveva questi vestiti con sopra calce e ombre. Mangiava in silenzio – davanti una bottiglia di vino, il vino terribile che gli ex contadini continuano a farsi per tutta la vita, con quell’odore nauseante di mosto che sale dai garage lungo le scale e ti prende alla gola. Fumava una sigaretta. Una nazionale, di quelle senza filtro, quelle che non esistono più. Era un uomo dolce, pure lui senza artigli per il mondo – forse siamo rimasti sempre un po’ estranei, l’uno all’altro. Borbottava, a volte. Mai con cattiveria. Mai uno schiaffo – forse una volta, forse due, forse mai. In silenzio andava a dormire – che poi prima dell’alba tutto doveva ricominciare. (Mentre dormiva, un giorno di marzo, se n’è andato, col cuore affaticato. Che pure, da certe fatiche non si guarisce neppure con un riposo che dura tutta la vita che resta. In silenzio. Pareva un angelo, disse mia madre. Non glielo avevo mai sentito dire). Lo vedevo sorridere solo quando tornavamo in Abruzzo, da certi parenti che giù erano restati – mentre raccoglieva erba per le bestie, spalava letame nella stalla, tagliava grano. Sudava e sorrideva, allora. Credo che ritrovasse, o per la prima volta trovasse, una forma di felicità – anche se la parola non gli somiglia. Né a me, pensando a lui, era mai venuta in mente.

 

Eravamo sei, in casa. Anzi sette, per pochi mesi. Con mamma e papà, oltre a me, c’erano mio fratello G. e un altro fratellino, morto ad appena un anno. Polmonite, mi disse mamma. Avevo quattro anni, quando è morto. Non ricordo niente, di questo bambino – né risate né pianti, né latte né odore di cacca, ché se c’è un bambino piccolo c’è sempre odore di vomito e cacca, in casa. Consolante odore di cacca. Un sospiro leggero, nient’altro. Così leggero che sempre e ancora mi sembra solo un’illusione. Una foto, una piccola cuffia di lana fatta in casa dalla mamma, di quelle con il pon pon sopra la testa. Polmonite – non aveva più respiro, il minuscolo Antonio – Tonino, sospirava mamma ogni tanto. Né la piccola bara ricordo – bianca, mi dicevano poi. Né la sua tomba vedo da anni e anni. Pur condividendo il sangue, ci siamo appena sfiorati. Con mio fratello e i miei genitori, c’erano i nonni paterni (i nonni materni abitavano al piano di sotto). Amavo moltissimo questi nonni. Mio nonno aveva il mio nome – parlava sempre di quando aveva fatto la Prima guerra mondiale, e di che immonda porcheria sia la guerra per la povera gente. Mio nonno era comunista – perché i comunisti stanno con i poveri, diceva: questo bastava, e questo in fondo è sempre stato l’essenziale. Mia nonna aveva i capelli bianchi, la figura minuta, il vestito nero – non rispondeva al telefono (quando il telefono arrivò), testardamente convinta che quell’affare potesse dare la scossa, come una presa malmessa, e quando in televisione compariva Berlinguer (quando la televisione arrivò) restava a fissarlo, si lamentava che si pettinasse poco e male, poi diceva: bello, figlio mio, bello!, e porgeva baci con le mani verso lo schermo, come se davvero quei baci potessero arrivare.

 

In camera, nonno S. e nonna M. avevano la foto di Togliatti, un crocifisso e una grande vecchia radio per ascoltare il giornaleradio. Nonna non sapeva né leggere né scrivere – nonno appena appena. Ma gli unici due libri in casa erano suoi – libri improbabili, che mi leggeva per ore e ore quando ero piccolo: un’agiografia di santa Genoveffa – una povera santa abbandonata nella selva oscura, in copertina figurava ispirata e vestita di pelli, con borraccia al fianco (quel libretto è sopravvissuto), e chissà nonno S. mentre leggeva cosa pensava: “Molti secoli fa, dopo che l’aurora del Vangelo ebbe dissipato, nella Germania, le tenebre del gentilesimo…”; e un volume sui “Reali di Francia”, re e regine confusamente assortiti, confusamente ricordo. (Mia mamma mi regalò poi i primi libri della mia vita. Andò in una libreria, a Roma. Per la comunione il libro “Cuore”, poi “Pippi Calzelunghe”). Mio nonno aveva fatto il mezzadro per tutta la vita. Non voleva stare a Roma. “Che dice la gente, che non abbiamo nemmeno una testa d’aglio in casa!”, rimproverava a mia madre. C’erano (ci sono) dei parenti immigrati in America – quelle leggere buste “par avion” ogni tanto arrivavano, nonno mi girava il dollaro che ognuna conteneva (sempre, i parenti dall’America mandavano un dollaro, cinque a Natale), poi mi dettava le risposte. Sempre le stesse: “Noi stiamo tutti bene, e così speriamo di voi tutti…”. C’era una zia, zia L. da Lorain (Ohio), che ogni lettera sempre chiudeva con questa frase: “Ora io vi lascio con la penna ma non con il cuore…” – e nonno: senti che brava, zia L.? Però è sempre uguale, dicevo io. Ma se una cosa è bella perché ne devi cercare un’altra?, diceva lui. Un dollaro, un altro, un altro ancora – una decina, a fine anno, tutti nelle mie tasche, e chissà dove avveniva poi il periglioso cambio di valuta. Sei (sette) persone in pochi metri – questa la mia famiglia di allora. Odori, umori; giorno, notte – come in quella frase di Balzac, che tutti ci affrettiamo a imparare per poter dir male del matrimonio, e relativa famiglia, con un minimo di umorisimo intelligente. Io e mio fratello dormivano nel salotto – la sera era tutto uno spostare tavoli e sedie, per permettere al letto sapientemente occultato dentro un mobile di svolgere la sua funzione. La mattina, si procedeva con l’operazione contraria.

 

Se penso la parola famiglia – alla parola così beatificata, così bistrattata, così a volte abissale – penso sempre e soltanto alla famiglia della mia infanzia e adolescenza. Alla pizza bianca, ai silenzi, alle lettere degli zii d’America, al fantasma di un bambino, a santa Genoveffa persa nella selva oscura. A volte però si allargava, la famiglia, fino a includere altri luoghi dove confusamente sentivo che avevano cura di me, altre persone: le mie suore amorevoli delle scuole elementari (se fai il cattivo la Madonnina piange!), il partito comunista. Persino il partito comunista, anche se fa certo ridere dirlo così (noi siamo di Berlinguer!, diceva la nonna) – qualcosa adesso inimmaginabile di rapporti, di vita quotidiana, dentro un luogo e un mondo e in anni dove le cose si riproducevano uguali e sconsolanti, con loro precise parole e i loro precisi gesti e odori (certi odori di mura e di panni e di fiati non si dimenticano: ti alitano per sempre addosso come una minaccia, come un rimprovero). Le donne che andavano a servizio a Roma, e nascondevano la tessera alla signora dove lavoravano – se sa che sono comunista poi si mette paura. I figli, alcuni ogni tanto beccati da carabinieri e poliziotti – non gliela date la tessera, dicevano le madri, perché poi se gliela trovano addosso è brutto per il partito. Il compagno che urlava, una volta che si venne a sapere di una compagna che si era messa con un altro sposato: “Il covo del puttanesimo è diventato il partito! Il covo del puttanesimo! La famiglia bisogna lasciarla stare! Se ti devi fare una scarpetta vai a Roma!”. E se devo pensare a una famiglia, all’immagine di una famiglia, oltre la mia, allora mi viene in mente quella del compagno M. Faceva il muratore. Poi la sera, quando tornava a casa dal cantiere – tutti i padri che conoscevo, il mio e quelli dei miei amici, tornavano la sera da un cantiere: di calce e di polvere e di sudore – si metteva a costruire la sua, di casa: con la moglie, i figli bambini, la mamma vecchia, vestita di nero con un gran fazzoletto annodato sotto la gola. Mattoni, calce, pozzolana, assi, chiodi, mura che non finivano mai, color cemento ovunque, faticose piante di gerani qua e là dentro vecchi barattoli: anni e anni così, tutta una famiglia intorno a quel manufatto che lentamente si alzava. Andavo a fargli la tessera del partito, giovane segretario di sezione: allora smettevano tutti di lavorare, M., dallo sguardo timido, si lavava le mani e tirava fuori una bottiglia di vino – voglio solo acqua; compagno segretario, mi offendi – i bambini posavano i secchi di calce e si mettevano a giocare sulla pozzolana nera, sprofondavano quasi dentro la terra. La nonna slacciava il grande fazzoletto, faceva volare i bordi sulla sommità della testa, portava i bicchieri, si sistemava in un angolo e sospirava. M., ma quando la finisci questa casa? Ah, compagno, quando Dio vuole! Per questi figli miei, lo faccio! Era una famiglia, quella.

 

[**Video_box_2**]Non ho più avuto una famiglia. Non nel senso tradizionale, almeno. Le famiglie dei ricordi sono un insieme di rimpianti, di struggimenti; di rancori, cose e persone morte; di bella confusione e rapporti velenosi. E’ sempre piena di momenti rimasti sospesi, una famiglia. Se solo si potesse tornare indietro – tutte quelle parole non dette, quei sorrisi non fatti, quegli abbracci così trattenuti che alla fine non si è più capaci di farli, come se il corpo stesso si fosse fatto pietra, ferro, sabbia che sfugge. Se si potesse tornare indietro – ma chi ha voglia o forza o coraggio per farlo? Di quella mia famiglia siamo sopravvissuti una minima parte – ora c’è molto spazio, i letti non sono più nascosti nei mobili, strade e marciapiedi finalmente. Resistono gli odori – che pure non ci sono più. Mia madre a volte ride e racconta – è bello adesso sentirla ridere, la sua piccola risata quasi trattenuta, come se fosse un colpo di tosse da raccogliere dentro il palmo della mano. Si dimenticano i visi – anche se quei visi sono quasi sovrapponibili al mio, come linee di un disegno prima del colore. Nessuno va a fare più la tessera dei comunisti. Nessuno la vuole più. Il compagno M. ha finito la sua casa – e pure lui, adesso, chissà cos’è. Le mie suore però sono ancora lì – pazienti, credo infinite. La Madonnina chissà quante volte avrà pianto – così difficile difendere noi dal dolore, figurarsi la madre di Cristo. Perciò una famiglia si può rimpiangere, a volte – il luogo delle occasione perdute. O fuggire – anche.

 

Replicarla no, questo non si può: né nel bene che ha dato, né (per fortuna) nella tossicità che a volte conteneva. Il legame pesante, insopportabile – a ricatto elevato – del sangue, dove l’affetto tracima nella complicità pelosa. Sono tuo zio – e ti scopri a rivalutare l’utilità di un secchio di letame. Il ghigno, non il sorriso. Non il sangue, col suo fetore, ma il cuore – là è la famiglia. Non le carte, la norma, il codice, non gli oscuri osceni politicanti che bla-bla-bla – ma chi ha fatto argine al tuo dolore, ti ha mostrato l’alba, c’era in certe sere oscure che calavano intorno e dentro. Dove si posa il cuore, dove il cuore riposa, dove il cuore non resta in continuo allarme, dove sei insieme vulnerabile e al sicuro – quella è la famiglia; non dove il cuore è assediato e schiacciato.

 

Chi reca qualcosa da leggere – e puoi morire in quelle pagine, perché stai vivendo adesso altrove. Chi porta stupori. Una voce. Una bambina che ti spiega i colori. Un’amica che semina cuori. Un amico che osserva e costruisce costellazioni. Un prete che mi spiega le cose vere di cui Dio mi chiederà conto. Ferite. Una vecchia coraggiosa comunista: noi credevamo che... Una vecchia scrittrice: ricordati, è crudele dire che Dio non c’è... Amori di cui hai visto il sorgere e il tramonto. Ferite. Amici che condividono. Ferite. Sussurri. Pochi parenti che pensi valga la pena di amare. Persino a volte il lavoro. Qualcosa non tra le mura di una sola casa – c’è gente che ci è morta, in dolore, tra le mura benedette di una sola casa. La mia famiglia, quella tra le mie mura, per molti anni sono stati due gatti. Uno non c’è più – per stanchezza, per vecchiaia, è andato via, un ultimo salto dalle mie mani, divorando nell’assenza parte di me. Dolore che resta. E non me ne frega niente, nessuno può spiegarmi, nessuno deve provarci, che quella non è famiglia. Vaffanculo, se ci provi! Ti spacco il muso, stronzo! Io ho amato (torno spesso ad amare) la mia prima famiglia – quel loro avventurarsi fin dove hanno potuto, comprendersi o non capirsi, lento e duro faticare che toglieva parole e fiato, lasciarmi fare e poi lasciarmi andare. Amo la mia famiglia disordinata di adesso, di affetti oceanici, parole, peli, chiacchiere, sorrisi, pagine, albe dolorose e di colori. Che però quasi non lascia un giorno senza un istante di paradiso o di stupore. La famiglia è dove uno sta. Io qui sto – né altrove so stare.

Di più su questi argomenti: