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Indiscrezioni, ipotesi e timori sul futuro dell'acciaio italiano

Danza indiana attorno all'Ilva

Alberto Brambilla

ArcelorMittal potrebbe rilevare l'acciaieria a "costo zero" in tandem con Marcegaglia. Non ditelo ai confindustriali.

Si susseguono resoconti di stampa e indiscrezioni di questo tipo: “l’Ilva ceduta agli indiani di Mittal a costo zero”, così scrive il Corriere del Mezzogiorno oggi. La prospettiva descritta è che il Gruppo Ilva passi in mano alla prima multinazionale della siderurgia del mondo, ArcelorMittal, per pochi spiccioli. Il motivo è presto spiegato: “Oggi i debiti accumulati dalla società e l’investimento complessivo per risanare gli impianti e rilanciare la produzione raggiungono una cifra prossima ai quattro miliardi […] una montagna di soldi che autorizza a delineare uno scenario nel quale l’ipotesi di una cessione a prezzi bassi purché la fabbrica sia risanata e l’occupazione mantenuta ha la sua ragion d’essere”, si legge sull’edizione pugliese del Corriere.

 

Capire quale sia il valore dell’Ilva è un esercizio complesso, un grattacapo da ragionieri. Tuttavia un recente report di Ubs, una banca d’affari, offre un appiglio: valuta il gruppo 4,5-4,9 miliardi di euro considerando nel computo anche le perdite mensili per 80 milioni di euro al mese. Resta da capire soprattutto chi si farà carico dei costi per la modernizzazione degli impianti, almeno 1,5 miliardi, necessario per ridurre le emissioni inquinanti attraverso l’installazione delle migliori tecnologie disponibili. Il governo vorrebbe che i capitali sequestrati alla famiglia Riva (1,2 miliardi) dalla procura di Milano venissero scongelati e trasferiti nell’azienda. Il tribunale di Milano si pronuncerà il 17 ottobre sul punto, scrive il settimanale l’Espresso. Se invece, come sembra da indiscrezioni, l’intenzione è di dividere la società in good e bad company – il canovaccio del primo salvataggio di Alitalia nel 2008 – il quadro cambierebbe sostanzialmente. Nella good company, appannaggio del nuovo acquirente, dovrebbero finire gli attivi e i costi del risanamento. Nella bad company, invece, finirebbero le pendenze giudiziarie al momento inquantificabili e sarebbero a carico dei Riva. Ma solo alla fine del processo per disastro ambientale che li vede imputati insieme ad altri ex dirigenti si avrà contezza dei risarcimenti richiesti in caso di condanna. Il 7 ottobre si attende il verdetto della Cassazione sulla richiesta di trasferimento del processo in altra sede, ovunque fuorché a Taranto, mossa dai legali dei Riva per ragioni di incompatibilità ambientale.

 

I calcoli lasciano il tempo che trovano. ArcelorMittal e il gruppo Marcegaglia, società leader nella produzione e distribuzione di lavorati di acciaio in Italia, sono in trattative avanzate con il governo ma non hanno ancora presentato alcuna offerta formale. Tuttavia la prospettiva di una vendita a “costo zero” motiva le perplessità dei sindacati dell’Ilva che invocano l’intervento dello stato in funzione di garanzia a tutela dell’occupazione, ergo per sorvegliare lo straniero. Posizione che trova per certi versi concorde anche il mondo confindustriale. Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, aveva invocato l’intervento della mano pubblica per controbilanciare l’avanzata dei concorrenti stranieri (il riferimento era anche all’indiana Jindal south west che ha confermato l’investimento a Piombino) e ha criticato, come fa spesso, il governo per avere tagliato fuori dalle trattative la famiglia Riva (oggetto di “un esproprio senza indennizzo” con il commissariamento). A usare toni anche più aggressivi è stato Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e di Techint, simpatizzante di Renzi, conosciuto da tutti per essere un gentiluomo riservatissimo.

 

[**Video_box_2**]Rocca è uscito dai gangheri parlando della vicenda Ilva: “E’ stata espropriata una famiglia e pertanto andrebbe studiata da esperti del regime sovietico”, ha detto a un convegno a Pordenoone. Tuttavia il moto di sdegno dei confindustriali pare oramai fuori tempo massimo. Quando ormai il commissariamento era avvenuto e i giudici tarantini da tempo avevano messo i sigilli agli impianti, Giorgio Squinzi, nel maggio scorso in occasione dell’Assemblea annuale, disse che “la magistratura tiene in ostaggio asset stratetici” (ciò per la verità vale pure per la Tirreno Power di Vado Ligure, cittadina del savonese dove l’inquinamento è paradossalmente salito da quando l’impianto a carbone della centrale termoelettrica è stato posto sotto sequestro). I padroni delle ferriere sono rimasti immobili per oltre due anni a guardare afflosciarsi la prima manifattura d'Italia per numero di addetti, e adesso gridano (o gridacchiano). Ma intanto ad allungare le mani sull’Ilva insieme allo straniero indiano c’è Emma Macegaglia, presidente di uno dei maggiori contribuenti di Confindustria, cioè l’Eni, nonché ex leader di Viale dell’Astronomia.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.