A suon di olivi intonsi, così si deprime la Toscana. Parlano i Georgofili

Giordano Masini

L’idea che la cura del paesaggio agricolo possa passare attraverso l’ibernazione di sistemi produttivi obsoleti e antieconomici non è certo nuova.

Roma. L’idea che la cura del paesaggio agricolo possa passare attraverso l’ibernazione di sistemi produttivi obsoleti e antieconomici non è certo nuova, non nasce con il famigerato Piano di indirizzo territoriale (Pit) toscano del quale il Foglio si è occupato diffusamente, e proprio in Toscana sta facendo sentire i suoi effetti sul territorio. Effetti che finiscono per essere l’esatto opposto di quelli attesi, con l’incuria e l’abbandono a farla da padrone. Ad accorgersene e a lanciare l’allarme, da anni, è stata l’Accademia dei Georgofili, l’antica e prestigiosa istituzione fiorentina che dal 1753 si occupa di scienza applicata all’agricoltura. Un allarme che non riguardava singoli settori dell’agricoltura, ma tutto il sistema imprenditoriale che ruota intorno alle attività agro-silvo-pastorali.

 

Un esempio per tutti, l’olivicoltura: l’antico divieto di espianto degli olivi era stato istituito nell’Italia post unitaria, dice al Foglio il professor Franco Scaramuzzi, storico presidente dei Georgofili, non per salvaguardare il paesaggio, ma per proteggere l’investimento economico: “Allora si piantavano gli olivi per i figli e per i nipoti”. Il primo raccolto significativo si otteneva dopo almeno un decennio, e spesso le oscillazioni dei prezzi dell’olio potevano indurre gli agricoltori a espiantare e sostituire frettolosamente quella coltura”. E oggi? “Oggi la competenza è passata alle regioni che hanno confermato il divieto, ma per motivazioni diverse che riguardano solo la tutela del paesaggio – dice Scaramuzzi al Foglio – Ma nel frattempo l’olivicoltura è cambiata, oggi un impianto moderno, specializzato e intensivo, arriva a produzione in tre anni. Mentre gli antichi oliveti sono diventati, per molti motivi, antieconomici. Ma non potendo essere espiantati, vengono curati troppo poco o nulla, perdendo anche i pregi estetici di un tempo”.

 

Ne sanno qualcosa in Spagna (o in Sudafrica, o in California), dove gli oliveti intensivi e superintensivi arrivano a una densità di 2.000 piante per ettaro, disposte su filari a controspalliera, e in cui la maggior parte delle operazioni colturali, a cominciare dalla raccolta, avviene meccanicamente e assai più rapidamente le olive raggiungono i frantoi, favorendo la qualità degli oli.

 

“Possiamo continuare a distribuire a pioggia i sostegni finanziari europei per mantenere anche un’olivicoltura marginale, le cui cure colturali vengono ridotte al minimo e gli oliveti vengono abbandonati o lasciati spontaneamente invadere dai boschi circostanti?”. Il professor Scaramuzzi è categorico: “Se un agricoltore paga le tasse, dovrebbe essere lasciato libero di produrre quello che ritiene più vantaggioso. Forse il paesaggio cambierà, nel tempo, come è sempre cambiato nel corso dei secoli, ma quel che è certo è che solo un’agricoltura remunerativa per gli imprenditori che la esercitano potrà continuare a essere custode di un territorio curato e piacevole”. L’alternativa tracciata dal Pit toscano, così come è stato redatto, è destinata a provocare incuria e abbandono, come insegna la storia degli olivi.

 

[**Video_box_2**]Non solo, e questo è un punto che a Scaramuzzi, una vita passata a studiare l’agricoltura e ciò che la circonda, sta particolarmente a cuore: se il piano aumenta i vincoli dovrà crescere la burocrazia. “Lo stesso assessore regionale all’Agricoltura, Gianni Salvadori, sostiene che è necessario ridurre l’attuale giungla di vincoli, lacci e lacciuoli che alimenta il sottobosco burocratico, favorisce la corruzione e penalizza gli imprenditori”.

 

E’ vero che gli agricoltori sono sussidiati, come ha raccontato al Foglio l’assessore Anna Marson, redattrice del piano. Ma lo sono ovunque, non solo in Toscana, dove già oggi sono sottoposti a eccessivi vincoli oppressivi, e figuriamoci cosa succederebbe se questo nuovo Pit andasse a regime.

 

Ne sa qualcosa Alessia Farina, allevatrice di Asciano, sulle Crete senesi, con 700 pecore che vanno a riposare ogni sera in una stalla coperta, udite udite, di tegole in cotto, come una villa in Val d’Orcia. “Ancora sto pagando, dopo anni – dice al Foglio – anche perché il maggiore costo non è solo quello della copertura, è proprio la struttura che va fatta diversamente. Con la lamiera coibentata, come vengono fatte dappertutto le stalle, avrei pagato molto meno. Ma non c’è stato verso, o così, o non mi davano l’autorizzazione”. E chi compensa all’allevatrice lo svantaggio competitivo con i suoi colleghi, accumulato grazie al capriccio di burocrati e amministratori? Ma le rondini, scherzo, saranno più contente a fare il nido sotto le tegole in cotto: “Eh no! La Asl non li vuole i nidi di rondine nella stalla!”. Chissà cosa ne pensano i Territorialisti…

 

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