Susanna Camusso e Maurizio Landini (foto LaPresse)

Tfr in busta paga, perché no?

Redazione

Neppure la benedizione di Sergio Cofferati, ex segretario e padre nobile della Cgil, organizzatore di adunate al Circo Massimo contro l’abolizione dell’articolo 18 e non solo, riesce a smuovere le granitiche certezze di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil.

Roma. Neppure la benedizione di Sergio Cofferati, ex segretario e padre nobile della Cgil, organizzatore di adunate al Circo Massimo contro l’abolizione dell’articolo 18 e non solo, riesce a smuovere le granitiche certezze di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. Che attacca: “Mettere in busta paga il trattamento di fine rapporto è l’ennesimo inganno, una truffa perché quelli sono già soldi dei lavoratori, non del governo, quindi nessuno parli di aumenti salariali”. Dove le parole “inganno” e “truffa” sono, va da sé, per Matteo Renzi.

 

A parte il fatto che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non ha minimamente parlato di aumenti salariali, la novità è che la proposta di dare ai legittimi titolari, magari in via provvisoria, quella che è comunemente detta “liquidazione” per smuovere i consumi piatti (prima causa di recessione), sta riunendo la coppia di ballo sindacati-Confindustria, temporaneamente separata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ma ora pronta a riallacciarsi nel solito casqué concertativo.

 

No, non basta un Cofferati a spiegare che il tfr è un’anomalia italiana, “un retaggio della concezione del lavoro come posto a vita, l’idea di accompagnare alla pensione con la buonuscita”. E ancora più eretico è un Maurizio Landini, leader dei metalmeccanici della Fiom, che propone la stessa cosa dal 2011, da quando lo disse anche Giulio Tremonti ricordando che l’indennità era stata istituita nel 1927 con le leggi corporative del fascismo. Il fatto è che la Cgil ha un’ortodossia da stato maggiore speculare a ciò che la Confindustria vuole incarnare per le imprese. Da quella parte è soprattutto la miriade di sigle (dall’Unindustria di Roma all’Ance di Venezia) ad alzare le barricate a nome di singoli industriali che magari la pensano in altro modo. Un Marco Tronchetti Provera, un Oscar Farinetti di Eataly non ci vedono nulla di male, se l’urgenza sono i consumi. Così come Edoardo Narduzzi, opinionista di Italia Oggi e a capo di un’impresa con circa 1.000 dipendenti in Italia e altri 10 paesi: “Il tfr – dice al Foglio – è un unicum italiano. Una voce di debito nel passivo del bilancio aziendale che equivale a una traccia dello stato dirigista nella nostra vita imprenditoriale. A eventuali acquirenti esteri bisogna sempre spiegarne la natura. Eliminarlo per restituirlo ai lavoratori avrebbe un effetto di pulizia dei bilanci”. Suggerimento: “Il governo potrebbe restituire il tfr futuro ai lavoratori, e contemporaneamente cancellare un altro unicum italiano che fa da zavorra agli imprenditori: intervenire decisamente cioè per abbattere il cuneo fiscale o eliminare il lavoro dalla base imponibile dell’Irap”. Narduzzi ridimensiona pure la lamentela che togliere il tfr dalla cassa manderebbe le aziende sul lastrico: “Per quelle in bonis non ci sarebbe problema, i soldi non sono usati certo per investimenti”.

 

[**Video_box_2**]Qualcuno in Confindustria scomoda i “parametri patrimoniali di Basilea”: ma appunto il codice civile dice che l’accantonamento per tfr va tra i passivi patrimoniali, e come costo nel conto economico. E’ vero, certo, che destinare ai dipendenti anche parte dei 14 miliardi di liquidità potrebbe creare problemi alle piccole imprese, e la soluzione renziana di ricorrere ai prestiti della Banca centrale europea alle banche va meglio definita. Ma anche qui Federico Ghizzoni, ad di Unicredit, dice che “se tutti sono d’accordo le banche non possono tirarsi indietro”. A meno che, come esiste una mentalità sindacale di job property, concezione proprietaria del posto di lavoro, non ce ne sia anche una di money property, che dal sindacato contagia la Confindustria. Magari non solo uno stato d’animo: la parte di tfr che va ai fondi di categoria è cogestita da sindacati e aziende, mentre la fetta che nel 2007 il governo Prodi dirottò all’Inps finisce notoriamente in non meglio precisate “spese generali”.

 

Ma l’idea che tutto ciò che è “giusta mercede”, la paga, sia liberamente utilizzata dai suoi unici padroni, fa così scandalo?