Perché le banche americane hanno iniziato a occuparsi di disuguaglianza

Elena Bonanni

I colossi bancari tra legittima ricerca di una "dimensione culturale" e interesse vitale a mascherare il ritorno del solito ricco e produttivo tran tran.

Prima Standard & Poor’s. Poi Morgan Stanley. Anche la spudoratamente ricca Wall Street, ingrassata negli anni a suon di bonus e stock option, si è messa a disquisire sugli effetti dannosi della disuguaglianza. A distanza di un paio di mesi uno dall’altro, il colosso dei rating sulla solvibilità di società e Paesi e la potente banca di investimento hanno pubblicato due report in cui affermano senza giri di parole che la disuguaglianza sta danneggiando la crescita dell’economia americana.

 

Per alcuni, una presa di posizione su un tema inusuale per questi colossi finanziari. “Perché queste istituzioni di Wall Street, normalmente focalizzate sui temi macroeconomici direttamente collegati alle stime sul Pil, improvvisamente intervengono sul tema?”, si è chiesto il Wall Street Journal in un articolo del corrispondente da Washington Pedro da Costa. Allo stesso tempo anche tematiche come la “crescita sostenibile” e gli “investimenti socialmente responsabili” prima rigorosamente fuori dai radar dei colossi della finanza stanno entrando in auge nell’agenda (e nella comunicazione) dei banchieri. “Crediamo che il capitale del settore privato può giocare un ruolo chiave nel guidare soluzioni su larga scala alle sfide cruciali per la prosperità e il benessere globale”, si legge per esempio sul sito del nuovo fiammante Morgan Stanley Institute for Sustainable Investing fondato dalla banca d’affari a fine 2013.

 

Che Wall Street sia in cerca di una nuova dimensione culturale non è un mistero, se non altro per rifarsi il look davanti a Main Street. E il tema dello sviluppo e delle disuguagliane è diventato caldissimo nell’opinione pubblica. Non a caso il saggio dell’economista francese Thomas Piketty (nuova rockstar dell’economia attesissimo per un giro di conferenze in Italia l’8 e il 9 ottobre), Il Capitale nel XXI, in cui si analizza l'esplosione delle disuguaglianze e le dinamiche che guidano l’accumulo e la distribuzione del capitale, è stato un fenomeno editoriale tradotto in 30 Paesi e gettonatissimo anche oltreoceano, pubblicato a febbraio 2014, è balzato subito nella lista dei best seller del New York Times. Ma il problema è che a Wall Street c’è ormai un serio vuoto di leadership. Tant’è che, in mancanza di alternative, la stessa Fed di New York sta tentando di riempirlo, ha fatto notare in un articolo sul New York Times l’ex banchiere William D. Cohan, diciassette anni tra Lazard, Merrill Lynch e JpMorgan Chase.
 
La Fed di New York, parte del sistema che fa capo alla Federal Reserve di Janet Yellen e che decide sul costo del denaro Usa, ha pensato bene di organizzare il prossimo 20 ottobre nel suo headquarter al 33 di Liberty Street a Manhattan un workshop dal titolo suggestivo: “Riformare la cultura e il comportamento dell’industria dei servizi finanziari”. “Il potenziale c’è”, dice Cohan, oggi giornalista e autore di libri sulla finanza tra cui House of Cards, il bestseller sulla storia degli ultimi palpitanti giorni di vita del colosso Bear Stearns messo al tappeto dalla crisi subprime (o meglio da “un mortale mix di avidità e disattenzione”). Già perché la Fed di New York è uno dei regolatori più importanti di Wall Street. E, fa notare Cohan, se decidesse di cambiarne i meccanismi remunerativi o le modalità di finanziamento di sicuro ci riuscirebbe.

 

Peccato che non abbia fama di severo maestro. Anzi, è la stessa istituzione che in questi giorni è nella bufera per il caso Carmen M. Segarra, ex dipendente che ha fatto causa alla banca per essere stata licenziata dopo soli sette mesi. Avvocato, nata nell’Indiana, cresciuta a Porto Rico, studi alla Columbia e ad Harvard, denuncia di essere stata cacciata perché non in linea con l’atteggiamento permissivo della Fed verso le banche regolate. La carriera della Segarra si è infranta nel 2013 contro il peso massimo Goldman Sachs: la banca di investimento, denunciò Segarra, non possedeva dei regolamenti contro il conflitto di interessi in linea con le prescrizioni della Fed (la banca aveva dei regolamenti pubblicati sul sito web giudicati insufficienti da diversi avvocati). Fu ostacolata in ogni modo dai suoi superiori che la costrinsero a modificare il rapporto. E poi fu licenziata (ma intuendo la mal parata prima riuscì a registrare di nascosto ben 46 ore di conversazioni con i suoi superiori).

 

[**Video_box_2**]“Noi economisti definiamo questo atteggiamento come cattura dei regolatori da parte dei regolati – spiega Luigi Zingales in un articolo sul Sole 24 Ore  – Invece che preoccuparsi dell’integrità del sistema finanziario (lo scopo per cui abbiamo regolamentazione), i supervisori si preoccupano di mantenere un buon rapporto con le banche che regolano, per favorire la loro carriera o semplicemente per quieto vivere”. Per Zingales il licenziamento della Segarra “è un segnale fortissimo a tutti i dipendenti della Fed”: chi dissente è isolato e poi espulso, “solo un eroe avrebbe il coraggio di continuare a fare il suo lavoro in modo corretto”.

 

Colpa della cattiva performance di lavoro, è la versione della banca. Che, vale la pena ricordarlo, come le altre banche della Federal Reserve è pur sempre tecnicamente posseduta dagli istituti privati che controlla (e non dal governo), il presidente attuale è William C. Dudley, un ex partner di Goldman Sachs, nel passato nel board sono transitati tra gli altri Jamie Dimon,  iconico numero uno di JpMorgan, e Stephen Freidman, ex top manager di Goldman Sachs. “Oggi comunque – fa notare Cohan sempre sul New York Times - dopo il trambusto pubblico innescato dalla presenza sia di Dimon sia di Friedman, il board della Fed di New York non ha alcun banchiere di Wall Street al suo interno; la figura più vicina è il co-fondatore del private equity Silver Lake Partners, Glenn H. Hutchins”.

 

Pur sperando che lo scandalo Segarra funzioni da scossa e volendo dare credito alle intenzioni di rinnovamento, si rimane comunque nuovamente perplessi quando si passa in rassegna il programma del workshop fissato fra pochi giorni. Il tema della “cattura” citato da Zingales ritorna senza pudore. Con un titolo come “Riformare la cultura e il comportamento dell’industria dei servizi finanziari”, ci si aspetterebbe di trovare a parlare di requisiti patrimoniali la professoressa  di Stanford Anat Admati, coautrice del libro “I nuovi vestiti dei banchieri” (The Bankers’ New Clothes: What’s Wrong with Banking and What to Do about It). Oppure che il premio Nobel Joseph Stigliz, che nel 2012 ha scritto il volume “Il prezzo della disuguaglianza” (“The price of inequality: how today’s dividend society endangers our future”), discuta su come Wall Street spinge alla disuguaglianza economica.

 

E invece no. Per dibattere di “cambiamento strutturale dell’industria”, fa notare ironicamente anche l’ex banchiere Cohan, la Fed di New York ci serve un panel dominato da altri banchieri, il presidente della svizzera Ubs, Axel Weber, e un ex direttore dell’inglese Barclays, David Booth (ai quali viene affiancato un professore di finanza della Washington University). E non basta.

 

Per parlare di “remunerazione”, insieme a un professore e un consulente chiama anche in causa Lee Raymond, ex amministratore delegato di Exxon Mobil e presidente della commissione sulle remunerazioni di JpMorgan. Raymond era alla guida della Commissione quando nel 2013 la banca diede al numero uno Dimon un aumento del 74% per riportare i suoi compensi a quota 20 milioni di dollari,  dopo il taglio del 50% inferto al manager nel 2012 per “punirlo” dello scandalo della Balena di Londra (un trader della City bruciò oltre sei miliardi di dollari in perdite).  Nient’altro che un “premio” per le buone performance operative e borsistiche dell’istituto in quell’anno (nel 2013 le azioni salirono del +33%). Lo stesso anno in cui JpMorgan pagò più di 20 miliardi tra sanzioni, scandali e costi legali su più fronti e rischiò un procedimento penale. Se gli orizzonti del dibattito sono questi, dubitare su un cambio di marcia significativo a Wall Street non è cinismo.

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