Combattenti curdi nel nord dell'Iraq (foto AP)

Con la morte nel nome

Paola Peduzzi

A Kobane è in corso la battaglia della sopravvivenza dei curdi, i nostri unici “boots on the ground”.

Era legata a un albero, nuda, piena di lividi ed ematomi, violentata ripetutamente dai jihadisti dello Stato islamico, che come premio, quando conquistano un villaggio, ottengono donne da stuprare, o da rivendere, e dopo averne abusato le lasciano lì, appese, come cartelli che segnalano la loro avanzata. A trovarla, questa donna, in un villaggio iracheno lungo il confine con il Kurdistan, è stata un’altra donna, una peshmerga curda, che combatte nel reggimento femminile, quattro battaglioni e un comandante per ogni brigata, e che con la sua divisa beige, la bandiera rosso-bianco-verde con il sole dorato al centro appuntata sulla spalla destra, rappresenta il più grande affronto alla ferocia dello Stato islamico. Si dice (ma non è vero) che se un jihadista viene ammazzato da una donna può dire addio al paradiso e alle 72 vergini che lo aspettano, il godimento eterno s’annulla, spazzato via da un colpo di fucile sparato da una soldatessa. “Facciamo paura”, hanno detto le “peshmergettes” intervistate su molti media internazionali, ma il loro orgoglio non sta soltanto nell’essere donne – il reggimento esiste dal 1996, non è una novità per nessuno – quanto nell’urlo di battaglia, che è lo stesso per tutti i soldati curdi, e fa parte, questo sì, della fierezza di questo popolo: “Combatteremo fino all’ultima goccia di sangue”. Sono loro, l’esercito di uno stato che non esiste e che ha la morte nel nome (“merga”), i nostri “boots on the ground”: combattono non dai cieli, che in questa guerra sono abbastanza protetti visto che lo Stato islamico non ha una forza aerea, ma sulla terra, dove gli scontri sono feroci, dove ogni metro di terra conta, dove nulla, nemmeno le roccaforti storiche, è al sicuro. Guardate Kobane, la cittadina nel governatorato di Aleppo, al confine tra Siria e Turchia: all’inizio del Novecento qui passava la linea ferroviaria “imperiale” che collegava Baghdad all’Europa; dal 2012 qui passa la linea di sopravvivenza del popolo curdo e di tutti i cristiani e arabi che in questi mesi si sono rifugiati a Kobane per farsi proteggere dai peshmerga

 

Lo Stato islamico assedia Kobane su tre lati, almeno sessanta villaggi vicini sono stati già conquistati, i curdi chiedono aiuto alla coalizione che sta bombardando la Siria: gli airstrike ci sono stati, ma non bastano, alcuni sostengono che sono stati colpiti palazzi in cui lo Stato islamico non c’è più, mentre i veicoli e le basi del gruppo di al Baghdadi sono ben visibili, e intoccati, attorno alla città; altri dicono che un po’ di tregua, le bombe, la stanno garantendo; tutti chiedono che arrivino truppe a sostenere i peshmerga, altrimenti Kobane non si può salvare. Lo Stato islamico certo non si fermerà: Ayn al Arab, come la chiamano gli assadisti (vuol dire “la primavera degli arabi”, che tragica ironia), è strategica per il Califfato, non soltanto perché ne allarga i confini, ma perché farebbe da hub per lo smistamento di combattenti stranieri che arrivano, soprattutto quelli provenienti dall’Europa, dal confine turco. Ma nemmeno i peshmerga si fermeranno: la battaglia di Kobane dà la misura della forza dei curdi, è in questa battaglia, nella resistenza allo Stato islamico, che può concretizzarsi il sogno unico del popolo curdo, la nascita di uno stato. Così molte persone scappano – almeno 130 mila rifugiati soltanto questa settimana – di là dal confine, in Turchia, ma da questa parte, mentre si controlla l’avanzata dello Stato islamico, si teme e si trama: cosa fanno i turchi, che hanno osteggiato la creazione di uno stato curdo per decenni in una guerra totale, stanno forse barattando Kobane con lo Stato islamico in cambio di un ritorno su altri fronti?

 

[**Video_box_2**]Un Kurdistan sovrano e indipendente, il sogno di sempre. Mai stato tanto vicino, questa è la grande occasione, sconfiggere lo Stato islamico sul campo, con i peshmerga come quasi unici “boots on the ground”, migliaia di paia di stivali che difendono la loro terra e insieme tutto l’occidente. Ma, scrive Dexter Filkins in un (come al solito) bellissimo articolo sul New Yorker, l’Amministrazione americana vuole che i curdi facciano “due cose potenzialmente incompatibili”: combattere come fedeli alleati contro al Baghdadi, con tutto l’equipaggiamento militare necessario (ed è necessario, tanto sono indefessi, i peshmerga, tanto sono sguarniti: sono arrivati gli addestratori e sono attese le armi, anche quelle fornite dall’Italia) e allo stesso tempo resistere alla tentazione di separarsi dal governo centrale di Baghdad e di costituire uno stato autonomo. Una pretesa assurda, se si pensa a quel che i curdi hanno dovuto sopportare sotto il governo iracheno e nei rapporti non sempre trasparenti con gli Stati Uniti, ma ancora più assurda a sentire quel che dice oggi Massoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno: un anno fa, nell’autunno del 2013, Barzani chiamò l’allora premier iracheno Nouri al Maliki per dirgli che lo Stato islamico stava avanzando, era diventato il “governo ombra” di molte cittadine e puntava a obiettivi simbolici, come Mosul. “Tu occupati del Kurdistan, il resto è sotto controllo”, rispose al Maliki. Ed era quello che continuava a ripetere a tutti, l’esercito iracheno combatte brillantemente contro i jihadisti, costruendo così un “mondo di fantasia” che è quello in cui non soltanto è rimasto incastrato lui, ma pure tutti i suoi alleati – per quanto sospettosi – in occidente. Al Maliki ha aspettato che Kirkuk, città petrolifera contesa tra Baghdad e i curdi, cadesse quasi nelle mani dello Stato islamico, l’esercito iracheno annientato, prima di rivolgersi a Barzani, che in una notte ha preso possesso della città, e ora con tutta probabilità non vorrà mai più restituirla. Perché rappresenta, come Kobane, non soltanto la linea della sopravvivenza, ma anche quella della vittoria, la dimostrazione che i curdi sono alleati affidabili, combattono fino all’ultima goccia di sangue, e si meritano uno stato indipendente.

 

Tra le tante incognite che aleggiano sulla strategia americana, c’è anche questa. Barack Obama non ha mai parlato in pubblico della possibilità che, alla fine della missione, i “boots on the ground” siano ricompensati con la sovranità: sarebbe la fine dell’Iraq. Ma forse l’Iraq è già finito, e rileggendo oggi i racconti di Christopher Hitchens, intellettuale scomparso nel 2012, che passò le vacanze di Natale del 2006 in Kurdistan con suo figlio, si percepisce forte il senso di quel che avrebbe potuto essere e non è stato, per i curdi, ma anche per tutti i siriani e gli iracheni che, imprigionati nel “mondo di fantasia” costruito loro attorno, hanno visto sfumare la loro occasione di libertà e di democrazia, e poi sono stati massacrati.

 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi