Foto LaPresse

Liberi di chiudere

Alberto Brambilla

Ieri la Camera dei deputati ha deciso di cancellare l’unica liberalizzazione compiuta del governo tecnico di Mario Monti, quella che lasciava ai negozianti la libertà di scegliere se chiudere o meno l’attività nei giorni di festa.

Ieri la Camera dei deputati ha deciso di cancellare l’unica liberalizzazione compiuta del governo tecnico di Mario Monti, quella che lasciava ai negozianti la libertà di scegliere se chiudere o meno l’attività nei giorni di festa. Con 283 favorevoli e nessun contrario i deputati hanno deciso di restaurare la situazione ante-riforma, una retromarcia parziale per frutto di un compromesso rispetto alla proposta iniziale. La proposta di legge varata dalla Camera indica per dodici festività l’obbligo di chiusura ma offre anche la possibilità di deroga per sei date, dimezzando di fatto le chiusure obbligatorie annuali (questo sarebbe il compromesso). Per chi non rispetterà i sei giorni di chiusura sono però previste multe da 2 a 12 mila euro: un capolavoro di dirigismo. Verrà poi lasciata ai sindaci la possibilità di regolare con ordinanze temporanee le situazioni particolari in base all’afflusso in alcune zone e orari – un po' di disciplina contro l'odiata movida e qualche gabbia in più. Ma la proposta di legge, avanzata e difesa in primis dal Movimento 5 Stelle, non toglie soltanto. Qualcosa concede, un sussidio. E’ previsto un fondo da 18 milioni l’anno (dal 2015 al 2020) per sostegno alle piccole e medie imprese del commercio, cifra che potrebbe anche essere impiegata per l’acquisto dei Pos, dispositivi per il pagamento con carte di credito e debito ormai obbligatori per i negozianti dal 1° luglio per facilitare la tracciabilità dei pagamenti. Il testo passerà ora al vaglio del Senato.

 

Il provvedimento rappresenta un compromesso rispetto alle pretese iniziali ma in ogni caso è da considerarsi un passo indietro rispetto a quanto deciso da Monti. La disputa sull’utilità delle aperture festive ha visto confrontarsi i piccoli esercenti (favorevoli alle chiusure, assieme ai sindacati di categoria) e i gruppi della grande distribuzione (contrari). Le grandi catene di distribuzione hanno avvertito che con la restaurazione (un ritorno ai dodici giorni, ma anche sei sono dannosi) significa che “le vendite calerebbero di un miliardo, gli organici di 7-8 mila unità e i salari distribuiti di 400 milioni”, dice Federdistribuzione. Per il M5s i “piccoli commercianti” non riuscirebbero a stare dietro a questi colossi, e costringerli a rincorrere lavorando anche la domenica o con “turni massacranti” sarebbe una barbarie. Meglio dunque chiudere tutti, per forza. Questo è barbaro. E' una barbarie che toglie lavoro, consumi e qualche soldo in tasca a chi non avrebbe problemi a festeggiare lavorando. Il problema, poi, è di tutti. L’ultimo studio in materia, compiuto da Cermes e Università Bocconi, stimava addirittura che le sole aperture domenicali consentirebbero un aumento dello 0,25 per cento del pil italiano. Meglio tornare indietro, dunque, tanto per conservare pigramente la nostra condizione di recessione.

Di più su questi argomenti:
  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.