Riccardo Muti, 74 anni, ha deciso due giorni fa di lasciare l’Opera di Roma

Melodramma da articolo 18

Marianna Rizzini

Il Maestro che fugge dal podio di Roma per voltastomaco da maestranza carogna Che fare dopo un gesto così estremo? Chiudere baracca? Licenziare? Precettare? “Fulmine a ciel sereno”, ha detto il sovrintendente Carlo Fuortes. Muti “non ne poteva più” degli scioperi e dei blocchi.

Non ci sarà, quest’anno, neppure il miraggio-consolazione della fila interminabile in biglietteria al Teatro dell’Opera di Roma: “Per il maestro Muti questo e altro”, dicevano gli uni agli altri i pensionati (tanti), gli studenti (pochi) e i professori di liceo che a inizio autunno si piazzavano di buon mattino sulle poltroncine dell’anticamera, guardati a vista da dispensatori di numeretti (come dal salumiere) e capi-fila esperti di topografia teatrale (meglio la barcaccia o il palco di secondo ordine?), tutti pazienti e tutti sbuffanti e tutti infine felici di aggiudicarsi un buon posto per abbonato (i melomani) o i biglietti ridotti per il balletto di Natale (tutti gli altri aspiranti spettatori, esclusi i notai dei Parioli, tradizionali avventori dell’Opera ma ormai convertiti all’acquisto online, non conveniente però più rapido). Non ci sarà quell’idea all’orizzonte – il Maestro che appare con la bacchetta magica e ripaga delle fatiche da habitué con i “gioielli da tabaccheria” (così Alberto Arbasino inceneriva i frequentatori dell’Opera, zeppa, scriveva, di “bambine grasse”, “ascelle sudate”, gente che “mangia caramelle rumorosamente”). Non ci sarà più Riccardo Muti in carne e ossa, all’Opera, e neppure in cartellone sulla facciata, come richiamo per abbonamenti.

 

Il Maestro se ne va, “fulmine a ciel sereno”, ha detto il sovrintendente Carlo Fuortes; il maestro ha rinunciato agli impegni già messi in programma (non dirigerà l’“Aida” e neanche “Le nozze di Figaro”). Il maestro, hanno scritto i giornali, “non ne poteva più” degli scioperi e dei blocchi (anche a Caracalla quest’estate, con la “Bohème” che salta davanti ai turisti giapponesi attoniti); non sopportava più il pensiero delle rappresentazioni andate in scena senza orchestra (con registrazione) e degli agguati in camerino di alcuni orchestrali-sindacalisti o sindacalisti-orchestrali (a volte la cosa coincide, solo che ora non ci sono più soltanto quelli di area Cgil, ma pure quelli di orientamento grillino). Dietro il sipario si intravede, nel pasticciaccio del teatro con Maestro che fugge, il vero fantasma dell’Opera: la riforma dell’apparentemente irriformabile, l’uscita dal contrasto tra mentalità confliggenti, tra mondo cambiato e mondo che vuol restare com’è, anche se nessuno può più sostenerlo economicamente e a condizioni immutate. E’ l’Opera, quella da cui Muti fugge, ma è anche una miniatura del cosiddetto “caso-Italia” (vedi riforma del lavoro). E chissà come si fa a rispondere davvero al gesto estremo di Muti, qualsiasi ne sia il motivo scatenante, con pettegolezzi, sotto-pettegolezzi e illazioni (il “che cosa ci sarà dietro?” che ormai avvelena qualsiasi discussione, specie su internet). Forse con un gesto altrettanto estremo (licenziare tutti?, chiudere tutto?, riaprire solo con nuove regole?), una volta constatata l’impossibilità di andare oltre il ricorrente e spesso irragionevole veto corporativo, roba che neanche all’Onu. Si può continuare con il laissez-faire, e assicurarsi la pace sindacale, ma lo sfacelo del teatro con Maestro che fugge, esacerbato dai tric e trac capricciosi e trinariciuti, indica un’altra strada, quella del “basta”, del via alla baracca e ai burattini.

 

“Grazie signora Thatcher”, pensavano ex post i minatori e musicisti da banda del dopolavoro nell’omonimo film inglese del 1996 (titolo originale ed eloquente “Brassed off”, che vuol dire “licenziati”, e però “brass band” è anche la banda di ottoni del paese). Si narrava, in quel film, la storia di un gruppo di padri e madri di famiglia costretti dalle circostanze a immaginare la propria ricollocazione (nella musica, vista la chiusura della miniera) facendo tesoro dell’esperienza nella brass-band locale: tocca fare le selezioni alla Royal Albert Hall, dicevano i meno spaventati dal nuovo; tocca soccombere, dicevano i molti terrorizzati dal non-così-garantito-come prima; tocca ribellarsi, dicevano gli ex arruffapopolo ormai spenti; tocca pensare che siamo già diversi anche noi, nel mondo cambiato, e capaci di vedere oltre quello che perdiamo, dicevano i due o tre profeti del benessere che sarebbe poi arrivato (in Inghilterra). Ma all’Opera di Roma non c’è stato alcun annuncio di licenziamento: il piano industriale presentato ai lavoratori dal sovrintendente Carlo Fuortes, approvato a maggioranza pochi giorni fa ma contestato dalla Slc-Cgil e dai lavoratori Fials (e pre-approvato con tanto di accordo presso il comune), prevede prepensionamenti, non licenziamenti. Prevede risanamento del bilancio (quello del 2014 è in equilibrio) e rivoluzione nell’organico, condizioni per accedere ai finanziamenti ripiana-debito della legge Bray. Accade anche in altre realtà lavorative (per non dire al tavolo europeo): tu mi dimostri che sei virtuoso, io ti do i soldi o allento i cordoni della borsa. Né ci sono state, all’Opera, signore Thatcher con mano di ferro (anzi), anche se i sindacati, da molti anni, additano come loro nemico pubblico numero uno (al grido di “ci smantella, ci smantella!”) il direttore generale per lo spettacolo del ministero dei Beni culturali, Salvo Nastasi. Il quale Nastasi, dopo aver studiato, con ministri di vario colore – da Giuliano Urbani a Rocco Buttiglione, da Francesco Rutelli a Sandro Bondi, da Lorenzo Ornaghi a Massimo Bray a Dario Franceschini – interventi legislativi settoriali per i teatri lirici, e dopo aver proposto a più riprese svolte liberiste e riforme impossibili da realizzare in panorami parlamentari ostaggio di veti esterni, oggi dice che “non servono più ulteriori interventi legislativi riorganizzativi. Il problema a questo punto è culturale-politico, e di rapporto con le rappresentanze sindacali. Per quante risorse si mettano, per quanto si ristrutturino le piante organiche, se poi si arriva ad avvelenare l’ambiente in cui il Maestro Muti avrebbe dovuto lavorare vuol dire che bisogna intervenire a monte, con interventi risolutivi che riequilibrino il rapporto tra il datore di lavoro e il lavoratore e che ristabiliscano il diritto dei cittadini a usufruire serenamente di un’offerta culturale di altissimo livello. Peraltro pagata tantissimo dallo stato”.

 

La notizia dell’addio del Maestro è piombata nel bel mezzo della ripresa post-ferie (degli orchestrali) e dopo il suddetto referendum tra i lavoratori dell’Opera. Far quadrare i conti e ridurre i vari sprechi, questo era l’obiettivo un anno fa (quando Fuortes è stato nominato sovrintendente). Muti si è congedato quando la toppa pareva ormai messa. Ma ecco che una minoranza sindacalizzata non partecipa al voto, dichiarandolo illegale. L’attacco allo spreco pare attacco personale, anche se è goccia nel mare. “Attenzione all’effetto auto blu”, dicono infatti melomani convinti che mettere mano alle (in alcuni casi eccessive) indennità dei musicisti non basti, e che il muro da abbattere sia la mentalità corporativa da “not in my backyard” (della serie: taglia, ma non a casa mia). E insomma non è detto che si risolva il “caso Opera” eliminando l’incredibile “indennità-sinfonia” per i suonatori d’opera, quella che prevede paga doppia in caso di lavoro su sinfonia. Anni fa il giornalista Sergio Rizzo, maniaco delle caste con il collega Gian Antonio Stella, aveva preso di mira pure l’indennità di “umidità” per gli spettacoli all’aperto e l’indennità di “frac” – eppure poteva capitare, e non solo all’Opera, racconta il pianista e responsabile Musica di Forza Italia, Nazzareno Carusi, “di vedere gente sovvenzionata con la giacca di un frac e i pantaloni di un altro”. Il musicista ha bisogno di recupero e tempo per lo studio, dicevano anche a Muti gli orchestrali riottosi, ma vai a capire se è sempre necessario, in tutti i casi, lo stop per vari giorni (modello hostess prima della crisi Alitalia). Soprattutto: se una cosa non è più sostenibile, specie economicamente, attaccarcisi al punto di disertare la tournée in Giappone proprio con Muti (è accaduto tre mesi fa, con primo violino assente) diventa un serio problema di responsabilità, prima che di mentalità, irrisolvibile, forse, con le buone maniere da vecchia e infinita concertazione. Per non dire dei modi (minoranza trinariciuta o maleducata?): ecco il Maestro assediato da chi, nel camerino, durante una prova della “Manon Lescaut”, chiede insistentemente e con urlacci “con noi o contro di noi?, ce lo dica!”; ed ecco il Maestro che si ferma per un’ora e passeggia tra le poltrone della sala senza dire una parola, in attesa che finisca l’assemblea sindacale convocata senza preavviso. E ora che il Maestro se n’è andato, è diventata evidente la necessità del cambio drastico di rotta: togliere foraggio ai blocca-tutto? Rifondare da zero?

 

Si è allontanato dall’epicentro del malumore e delle rivendicazioni di sigle contrapposte (circa sedici), il Maestro, con una lettera ai vertici del Teatro, subito oggetto delle più varie elucubrazioni da paese matto di trame & complotti (anche a casaccio e a sproposito): “Non ci sono le condizioni per poter garantire quella serenità per me necessaria al buon esito delle rappresentazioni”, ha scritto Muti, alludendo al “perdurare delle problematiche emerse durante gli ultimi tempi”. Gli amici restavano basiti, ma neanche tanto. Se lo vedevano lontano, negli Stati Uniti, il Maestro settantaquattrenne, intento a pensare e ripensare, dopo giorni in famiglia e con gli adorati nipotini, sul da farsi e sul futuro (suo, della musica e del paese: “E’ un patriota”, dicono alcuni). Se lo immaginavano, Muti, Maestro dall’Opera fuggito, mentre ponderava la scelta: lascio oppure no? Se lo figuravano come una specie di imperatore Adriano nel libro di Marguerite Yourcenar: l’uomo grande e tormentato, in bilico tra nostalgia e pragmatismo. Se lo ricordavano, il Maestro, ancora più assorto dopo la morte di Claudio Abbado, chiuso nel peso della responsabilità da ormai unico direttore d’orchestra-simbolo di un’eccellenza musicale italiana danneggiata nell’immagine dalle scene di lotta di classe in camerino. E qualcuno vedeva un Muti esasperato, un Muti che ha il voltastomaco alla sola idea di trovarsi di nuovo di fronte a maestranze che non gli perdonano il suo essere Maestro, sì, ma non in ogni caso disposto a dire “l’orchestra ha sempre ragione” (lontano è il giorno del suo discorso sui tagli alla Cultura, fatto proprio al Teatro dell’Opera nel 2011, senza preavviso, presente Giorgio Napolitano). Ed era un Muti, quello immaginato dagli amici, che, mettendo assieme dentro di sé i tasselli degli episodi sconfortanti, ma anche i pensieri più alti che gli frullavano per la testa, coglieva l’occasione del “gesto costruttivo”, per dare un “segnale” che fosse preludio a un “ripensamento del sistema”. Se insondabile è l’animo del Maestro, non così insondabile è la posizione del sindaco e “padrone di casa” Ignazio Marino (anche sovvenzionatore dell’Opera con 18 milioni di euro capitolini), sollecito nel far sapere che non ci sono “problemi” tra Muti e il comune di Roma (dall’opposizione di centrodestra sempre Nazzareno Carusi chiede “dimissioni immediate” di Marino: “Ancora una volta Roma e l’Italia sono vittime della dissennatezza di una certa classe dirigente che, puntualmente, le mette alla berlina”).

 

Nel mondo della musica (e in prospettiva altrove), c’è chi, sottotraccia, dice: quello di Muti è il segno della misura colma. Che fare? Precettare? Far decadere dal posto colui che non si presenta alla prova per due volte di seguito senza giustificati motivi? Diffidare del certificato medico presentato un minuto prima di andare in scena? Bisogna “ripensare il sistema anche a costo di dire, di fronte ai veti, ‘licenziamoli tutti’”? All’Opera non si è licenziato, come si è detto. Ma tutto dipende dall’occhio di chi guarda, a giudicare dalle parole che in questi giorni provengono dal mondo (di minoranza) che non ci sta: non è colpa nostra, dicono nelle interviste sui giornali gli orchestrali-sindacalizzati. “Muti se ne va per altri motivi, perché non può far lirica nell’Italia dove manca una legge di sistema”, dice Silvano Conti dai vertici della Slc-Cgil (sigla del “no” al piano industriale assieme alla Fials). Conti, sindacalista dall’eloquio elegantemente bertinottiano (“r” compresa), che mai personalmente si recherebbe, s’immagina, dietro le quinte a insolentire il Maestro con un “o con noi o contro di noi”, respinge però le accuse di non-costruttività, rigirandole in direzione ministero: siete voi “istituzioni” e “amministrazioni” che “vigliaccamente fate implodere il sistema” con “provvedimenti destrutturanti”, dice; voi che “usate il sindacato come proiezione dell’insufficienza della politica”; voi che date “piani industriali fasulli in cui rimandate a oltranza la presentazione della dotazione-organici”.

 

E mentre dall’America Matteo Renzi parla di “mentalità striminzite” da scardinare, all’Opera va in scena “Cenerentola” (nomen omen?).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.