Angela Merkel e Barack Obama (foto AP)

Fuori dal coro, ancora

L'Europa in cerca di un assist commerciale per la ripresa. Berlino frena

Marco Valerio Lo Prete

Il possibile “nein” all’accordo di libero scambio Ue-Canada crea allarme per l’intesa “gemella” con gli Stati Uniti.

Roma. La ripresa europea è più stentata del previsto. Il prodotto interno lordo (pil) degli Stati Uniti oggi è del 6,7 per cento più alto dei livelli pre-crisi, mentre quello dell’Eurozona è ancora del 2,4 per cento più basso. Tardano le riforme strutturali e il rafforzamento della governance dell’area euro, sostiene tra gli altri Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea. Tardano ulteriori stimoli monetari o fiscali, lamentano invece alcune cancellerie del continente. Su un aspetto, almeno, non c’era stata finora troppa discussione: un sostegno alla crescita europea potrebbe venire a breve da una nuova ondata di accordi di libero scambio, innanzitutto quello tra Unione europea e Stati Uniti i cui negoziati sono cominciati ufficialmente nel luglio 2013. Ieri però il Wall Street Journal rilanciava con enfasi un’indiscrezione sul possibile deragliamento degli accordi commerciali in fieri. Quello tra Unione europea e Canada è più immediatamente in bilico. Ma essendo considerato come un “accordo pilota”, anche l’intesa ben più corposa tra Ue e Stati Uniti sarebbe a rischio.

 

Il quotidiano americano, citando fonti governative canadesi e comunitarie, scrive che già in settimana – complici le opposizioni della Germania, e in seconda battuta della Francia – si potrebbe arrivare al primo stop ufficiale del Ceta (Comprehensive economic and trade agreement) tra Ue e Canada. I negoziati tra Bruxelles e Ottawa sono durati quattro anni, dal 2009 al 2013. Adesso manca solo la ratifica del Parlamento europeo e dei 28 stati membri. Che però potrebbe non arrivare più. La Germania, in particolare, si oppone alla “clausola di protezione degli investitori” che consentirebbe alle società multinazionali canadesi ed europee di contestare certe decisioni dei governi nazionali di fronte a tribunali internazionali (e non a quelli della giustizia ordinaria statale). Voci sull’opposizione di Berlino, questa estate, erano già trapelate sulla stampa tedesca: nel governo Merkel c’è chi contesta l’idea che la “clausola di protezione degli investitori” possa servire a rassicurare i capitali privati sull’imparzialità di eventuali processi. Si teme piuttosto un rafforzamento eccessivo delle corporation a stelle e strisce. Anche all’interno della società civile – specialmente tra organizzazioni come Attac, Greenpeace, eccetera – c’è chi da mesi fa leva proprio su questa clausola per frenare accordi che in realtà incidono, oltre che sulle tariffe commerciali (già basse a cavallo dell’Atlantico), su aspetti come la proprietà intellettuale, gli appalti pubblici e gli standard ambientali e di protezione dei lavoratori.  Ora però, almeno per l’intesa con il Canada, siamo al momento “make or break”, dicono i diplomatici. La Commissione Ue, che ha guidato le trattative per l’Europa, non intende rivedere il testo concordato, e nemmeno il governo canadese del conservatore Stephen Harper. Le difficoltà di queste ore “sottolineano l’indebolimento della Commissione proprio in un’area in cui la Ue era riuscita, sinora con un certo successo, a esprimersi con una sola voce e a creare migliori opportunità di accesso ai mercati per le nostre imprese”, dice al Foglio Domenico Lombardi, direttore del programma di Economia globale del think tank canadese Cigi. Poi ci sono le possibili ricadute negative, adombrate dallo stesso Wall Street Journal, per l’accordo tra Ue e Stati Uniti che prevede anch’esso la famosa clausola di protezione e che – secondo la Commissione – può generare mezzo punto percentuale di crescita aggiuntiva per l’area. Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, sperava di concludere le trattative tra Bruxelles e Washington addirittura entro il semestre di presidenza italiana dell’Ue. “Considerato il continuo spostamento dei rapporti di forza nell’economia mondiale a favore delle economie emergenti, l’unica strategia sensata per i paesi europei è negoziare come un solo blocco – dice Lombardi – Se alcuni paesi europei dovessero creare un malaugurato precedente spingendo per una versione al ribasso dell’accordo con il Canada e gli Stati Uniti, ciò potrà compromettere la capacità della Ue di negoziare ‘mega-accordi’ di nuova generazione con altre grandi economie. In uno scenario che condanna l’Eurozona a un lungo periodo di crescita piatta, le implicazioni sarebbero evidenti”.

 

Non per tutti, forse. Visto che la Germania, mentre da una parte frena gli accordi multilaterali, dall’altra ha fatto segnare per il 2014 il record di acquisizioni da parte delle sue aziende private negli Stati Uniti: 70 miliardi di dollari di acquisti, appena dietro il primato canadese di 77 miliardi.