La locandina del film di Salvatores, "Italy in a day"

Italy in a day

Giuliano Ferrara

Non c’è la patria, non c’è l’esercito, non i partiti, non la televisione, non le istituzioni, gli imprenditori, l’economia, non la chiesa, non c’è la fabbrica, l’arte, la famosa eccellenza italiana, magari nel cibo e nel vino, la mafia, il crimine organizzato, le stragi. Ci sono gli italiani come sono e come  si vedono in un formidabile social movie di Gabriele Salvatores.

Non c’è la patria, non c’è l’esercito, non i carabinieri, non i partiti, non la televisione, non le istituzioni, gli imprenditori, l’economia, non la chiesa, non c’è la fabbrica, il salotto, l’arte, la famosa eccellenza italiana, magari nel cibo e nel vino, la mafia, il crimine organizzato, le stragi e robe varie, ma ci sono gli italiani così come esistono e si sembrano e si amano e si sublimano in perenne movimento, montati, deformati, riformati, spalmati in un grande panino smozzicato, rinaturalizzati e confermati da un film scattante e monumentale di Gabriele Salvatores, che ha un titolo inglese invece che “Un giorno in Italia”, ma una sceneggiatura iperitaliana scritta a 45.000 mani, tanti i video girati e fatti arrivare ai produttori per la data convenuta del 26 ottobre del 2013, una specie di Bloomsday senza Ulysses né Joyce, e firmata da un team di persone capaci (produzione, montaggio, musiche, idee). Tutto sotto l’occhiuta e vigilante spinta della Rai e di Raicinema, che ha lasciato gli autori “all alone without adult supervision”  (soli soletti senza la supervisione degli adulti).

 

Risultato a suo modo grandioso, un’ora e venti magistrali di sensualità, di calore, di mandolini spaziali, di cibi, di animali, di letti disfatti, mercati, stazioni spaziali, ragazzacci e ragazzacce, vecchi bacucchi ancora innamorati di vivere, vecchiette generose e aitanti, carne e voce e canzone, e tutti sempre ballano e ballano, e poi si grattano e camminano in città, pascolano le pecore, mungono le vacche, guardano il vulcano che erutta, viaggiano sulle onde dell’oceano domandandosi che cazzo ci fanno su quel cargo. Non c’è nemmeno il sospetto della fatica, del lavoro inteso come Beruf, come vocazione e chiamata religiosa o disciplinare, tutto è arrangiamento di vita, molesta e delirante ma straordinaria e unica esibizione del sé italiano. Un saggio assoluto di antropologia, che nega le verità dei sociologi e degli storici sociologici, che oltraggia l’idea stessa di un’identità nazionale ma realizza come eterno presente la storia senza passato degli italiani fino all’ottobre scorso, che affossa ogni ombra di ideologia.

 

Certo qualche sbaffo di merda retorica non poteva non vedersi, mi sarei offeso se il film ne fosse stato del tutto privo: c’è il medico buono che salva le vite con ostentazione ong, e che ci stanno a fare i medici sennò?; c’è la grottesca terra dei fuochi, gente dei nostri che prima riversa in strada la eterna discarica della sua vita e poi, ma che balordi, se la prende con lo stato e gli imputa la strage del territorio; du’ froci sposati con bambino a carico arrivati dritti dal Canada, penosi; qualche convenzione di troppo sul lavoro e i quattrini che latitano, e una crisi che in realtà nel film è assolutamente introvabile. Crisi, quale crisi?

 

[**Video_box_2**]Un paese povero che non se la passa troppo male, il paese che i tedeschi amano odiare, un paese che non sarà mai come il Canada, che so, ma nemmeno come la Francia, come la Spagna, per non dire la Germania o la Gran Bretagna. L’unico altro luogo al mondo dove potrebbero fare cose analoghe, non conosco l’Argentina e non è che abbia tempo ormai di conoscerla, dell’Oriente me ne impipo, l’unico forse è l’America del nord, gli Stati Uniti. Perché Salvatores altmanniano ha filmato la nostra Nashville, una specie di epica del feto nella pancia della donna (il film è prolife lo sappia o no), del bambino che sbadiglia e sorride tutto il giorno e straparla e dormicchia, del sesso appena accennato, del sonno sotto le pezze, le coperte; una specie di epica della festa continua, del sole mio e tuo, dell’automobile e della motocicletta, versione rally; una festa del buio e delle luci, e delle parole.

 

Gli italiani sono un popolo come lo definiva Mussolini di artisti santi poeti pensatori scienziati eroi navigatori trasmigratori, questo è certo, ma sopra tutto sono un popolo di narratori, di novellieri, di prosatori della loro stessa vita e vitaccia, osservatori di sé stessi, pieni di lieta gioia amorosa di vivere e morire, attaccati alle tradizioni e alle gonnelle della mamma, della fidanzata, della moglie, fimmine e fimminari impenitenti, e ci voleva coraggio per riprendere il filo del discorso abusato e ritrito, eppure mai spento nella noia d’altrove, con la magistrale capacità di resa ritmica e romanzesca di questo social movie reinventato bene (sulla scia di Ridley Scott, “Life in a day”) e realizzato meglio. Ieri sera nei cinema, e solo ieri sera. Poi in televisione.

 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.