Leonardo Di Caprio e Ban Ki-moon (foto Ap)

Dopo il record di CO2, quello di slogan. L'inutile lotta dell'Onu al clima

Piero Vietti

Lo ha detto di nuovo, Ban Ki-moon. Ieri, durante la giornata clou del summit climatico delle Nazioni unite a New York, il segretario generale ha spiegato che “we need to take action now”, dobbiamo agire adesso per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici causati dalle emissioni umane o sarà troppo tardi.

Roma. Lo ha detto di nuovo, Ban Ki-moon. Ieri, durante la giornata clou del summit climatico delle Nazioni unite a New York, il segretario generale ha spiegato che “we need to take action now”, dobbiamo agire adesso per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici causati dalle emissioni umane o sarà troppo tardi. Poco prima Ban Ki-moon si era fatto fotografare con il neo “messaggero di pace” Leonardo Di Caprio (in verità un po’ troppo in carne per essere un testimonial credibile della lotta agli sprechi), che aveva ammonito tutti: “Now is our moment for action”.

 

Sul sito ufficiale del summit, un box, bene in vista, raccoglieva i tweet che da tutto il mondo parlavano di #climate2014. Un fiume di promesse a lunga scadenza (“Entro il 2050 l’economia della Danimarca sarà carbon-free”, “l’Unione europea investirà miliardi sulle rinnovabili” e così via), complimenti ai partecipanti, video catastrofisti e commoventi, pubblicità di ditte che usano energia verde e mappe mondiali sui disastri che il riscaldamento globale ha prodotto negli ultimi decenni. Forse in onore del record di CO2 prodotta globalmente nel 2013, la giornata di ieri ha prodotto il record di slogan sul clima: “Non c’è alcun piano B, perché non abbiamo un pianeta B”, ha detto ancora Ban Ki-moon; “l’azione contro i cambiamenti climatici è un imperativo morale”, ha sottolineato il segretario di stato della Santa Sede Pietro Parolin; “Dobbiamo definire una nuova economia mondiale”, ha aggiunto il presidente francese Hollande. Parole simili, se non identiche, a quelle pronunciate negli ultimi venti summit sul clima, a partire da quello “decisivo” di Copenaghen nel 2009. Come già ricordato su queste pagine, però, alla seduta di autoscienza verde collettiva del Palazzo di vetro si è registrato il dissenso di diversi grossi produttori di emissioni di gas serra, prima fra tutti la Cina. E non è un dissenso da poco.

 

[**Video_box_2**]Pechino ha infatti prodotto quasi il 25 per cento delle emissioni mondiali di CO2 degli ultimi cinque anni (nello stesso periodo tutti i paesi in via di sviluppo sono arrivati al 57,5 per cento). In parole povere, se anche gli Stati Uniti cominciassero seriamente a ridurre le loro emissioni da oggi stesso, il risultato finale sarebbe più o meno lo stesso, tenuto conto del fatto che Cina e paesi in via di sviluppo sono molto riluttanti a fermare la loro corsa verso il progresso per passare alle energie rinnovabili in pochi mesi. Passaggio utopico, peraltro, poiché – come faceva notare ieri un editoriale non firmato del Wall Street Journal – questo sarebbe comunque una transizione lunga e costosa. Pensare che alzando le tasse sul carbone e dando sussidi all’energia verde si passerà al Mondo Nuovo Pulito senza soluzione di continuità è una storia buona al massimo per un film di Leonardo Di Caprio. Ne sa qualcosa Angela Merkel: la sua Germania ha visto fallire gli incentivi per le rinnovabili e si sta pian piano riconvertendo al carbone. Con i paesi in crescita che nicchiano (e al massimo partecipano alla gara degli slogan) le emissioni di CO2 sono dunque destinate a crescere ancora per molti anni, rendendo perciò nuovamente grottesco quel now in cui l’action dovrebbe cominciare.

 

Non è questione di negare i cambiamenti climatici in atto, o il fatto che negli ultimi decenni del secolo scorso le temperature medie globali siano aumentate, ma di rendersi conto che le soluzioni messe sul tavolo dall’Onu non sono adeguate. “Siamo ancora lontani dall’avere le conoscenze necessarie per mettere in atto delle buone politiche climatiche”, scriveva qualche giorno fa Steven E. Koonin, scienziato fisico direttore del Center for Urban Science and Progress all’Università di New York ed ex sottosegretario al dipartimento di Scienza ed Energia della Casa Bianca. Nel lungo saggio pubblicato dal Wall Street Journal, Koonin parte dal presupposto che il clima stia cambiando (“come ha sempre fatto e sempre farà”) e che le attività umane in qualche modo lo influenzino. Ciò che assolutamente non sappiamo con certezza, dice lo scienziato, è come e quanto il clima effettivamente cambierà nei prossimi decenni per colpa nostra. Un esempio? Nonostante l’aumento record di CO2 immessa nell’atmosfera negli ultimi anni, da quasi un ventennio le temperature globali non aumentano più. La spiegazione degli esperti dell’Onu a questa pausa è che il calore in eccesso sarebbe intrappolato negli oceani, pronto prima o poi a esplodere in tutta la sua violenza annientatrice. La pausa ha dunque ridato fiato e credibilità a quel now tanto caro a Ban Ki-moon e all’ex vicepresidente americano Al Gore. Peccato che anche la versione del calore intrappolato sott’acqua è poco più che un’ipotesi, come spiega ancora Koonin, dato che di questo processo la scienza sa ancora troppo poco. Lo stesso dicasi per il ruolo delle nubi e del vapore acqueo, e la parziale inaffidabilità dei modelli computerizzati che prevedono le temperature dei prossimi cento anni.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.