Matteo Renzi (foto Ap)

Ve la do io la Merica

Redazione

“Faremo di tutto per cambiare l’Italia”, annuncia Renzi in mezzo agli startupper italo-californiani. Nel paese dell’“employment at will” e della rinascita di Chrysler, il refrain del Circo Massimo sindacale è lontano

Roma. “Faremo di tutto per cambiare l’Italia”, ha detto ieri Matteo Renzi a San Francisco incontrando decine di imprenditori italiani che animano le start up high-tech della California. “Faremo di tutto per cambiare l’Italia e rendere il paese più semplice, con un mercato del lavoro diverso, una classe politica dimagrita e di cui non vergognarsi, un sistema della Pa efficiente”. E nemmeno uno tra gli astanti che si sia alzato per citare Ugo La Malfa (quello che nel 1970 voleva rinviare l’ingresso della televisione a colori in Italia), come invece ha fatto il tiepido e confindustriale Sole 24 Ore di domenica scorsa dicendo che sì il premier ha ragione a voler cambiare le regole del lavoro, ma anche alcuni della sinistra del Pd dimostrano “buon senso”.

 

Gli startupper trapiantati in America sembrano pensarla piuttosto come Giorgio Squinzi, il presidente di Confindustria, che ieri si è fatto finalmente coraggio e sul superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha detto: “La visione di Renzi è assolutamente condivisibile e va sostenuta con molta forza dalle imprese”. D’altronde la California è pur sempre lo stato americano la cui Corte suprema, nel 2000, ha ribadito la validità della dottrina a stelle e strisce dell’“employment at will”: “La semplice esistenza di un rapporto di lavoro non comporta nessuna aspettativa, protetta dalla legge, che il rapporto continuerà o che finirà soltanto a certe condizioni (a meno che le parti non abbiano così deciso)”. Il datore di lavoro, negli Stati Uniti, in linea di principio può sempre licenziare, “per una buona ragione, o una cattiva ragione, o per nessuna ragione”. Che poi, sia chiaro, Renzi non ha in mente nessuna “americanizzazione” del sistema italiano. Tuttavia gli è bastato far capire di voler abolire l’articolo 18 che dal 1970 impone un passaggio giudiziario per ogni licenziamento individuale, di voler puntare a diminuire la selva di contratti e avviare un welfare universale al posto della cassa integrazione per pochi, che subito sinistra del Pd e sindacati sono insorti. Ieri Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha detto di essere pronta ad andare in piazza da sola se gli altri sindacati dovessero arretrare.

 

[**Video_box_2**]Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto dicendo “che in questo paese che amiamo, non possiamo più restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”. E’ il solco ideale in cui dice di muoversi Renzi, quando vuole superare l’apartheid e la concezione proprietaria del mercato del lavoro che caratterizzano l’Italia. Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, di recente ha criticato l’imprinting “socialista” di un sistema di leggi che “fa di tutto per rendere” il rapporto di lavoro “con l’azienda il più stretto e vincolante possibile. Lo fa durare a vita per legge”. Non è il mestiere degli imprenditori fare bei discorsi, avrà pensato qualcuno. E così venerdì Marchionne aprirà le porte dei suoi stabilimenti americani al premier (“gli mostrerò la realtà di Fiat-Chrysler”). Gli stessi stabilimenti in cui i sindacati, quando nel 2009 Chrysler era sull’orlo del fallimento, accettarono demansionamenti per i vecchi operai, salari più bassi per i nuovi assunti, pause lavorative meno generose, stipendi legati sempre e soltanto alla produttività e altro ancora. Oggi Chrysler, anche per questo, è tornata ad assumere. Sull’Italia invece pende l’ennesimo Circo Massimo sindacale.

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