Matteo Renzi

Perché Renzi usa le serie tv per conquistare gli elettori di un Posto al sole

Claudio Cerasa

“Dobbiamo individuare un numero fisso di persone da formare con strumenti tradizionali di formazione politica, ma anche con le serie tv americane” dice il Presidente del Consiglio. La svolta è presto spiegata.

Quattro giorni dopo lo straordinario risultato delle elezioni europee, Matteo Renzi, di fronte a una smarrita platea democratica abituata a discutere più le ragioni delle proprie sconfitte che le ragioni delle proprie vittorie, si presenta a Largo del Nazareno, sede del Pd, e durante un’importante riunione del suo partito indica una nuova direzione, che più che una svolta politica coincide con una svolta culturale: “Dobbiamo individuare un numero fisso di persone da formare con strumenti tradizionali di formazione politica, ma anche con le serie tv americane”. La svolta – utile da ricordare in questi giorni in cui, complice il Festival della fiction a Roma, sul modello culturale costituito dalle serie tv si è tornati a discutere, non solo su questo giornale – è presto spiegata. Da un certo punto di vista, Renzi è il primo leader del centrosinistra che abbia avuto il coraggio di spostare definitivamente nella cartellina “trash” il vecchio pregiudizio culturale del mondo progressista italiano: esiste, come diceva Alberto Moravia, un pubblico di serie A e un pubblico di serie B; il pubblico di serie A è quello del cinema; il pubblico di serie B è quello televisivo; siccome la sinistra non può che rivolgersi a un pubblico di Serie A, che poi è quello colto, serio e profondamente impegnato del cinema, il pubblico di serie B, ovvero quello televisivo, non può che essere considerato come un pubblico da snobbare – ed elettoralmente parlando, semplicemente da non rappresentare. Per molti anni, la distanza tra la sinistra e il mondo televisivo ha coinciso con una distanza speculare tra il mondo eternamente minoritario della sinistra e quella fetta invece maggioritaria del paese cresciuta più a colpi di tegolini e Bim Bum Bam che a colpi di pane e Bertolucci. Ragionamento: il pubblico di serie B, cresciuto con la televisione commerciale (e dunque intrinsecamente berlusconiano), lo lasciamo volentieri ai partiti di serie B; perché noi che siamo gente da Serie A non possiamo sporcarci le mani con il pubblico di serie B.

 

Vista da questa angolatura, Renzi ha avuto il merito di aver fatto saltare un tappo che per molto tempo aveva schiacciato l’elettore di sinistra (costretto il più delle volte a vedere in clandestinità “Un posto al sole”). E scegliendo di utilizzare le serie tv come uno strumento di formazione del partito, ha sdoganato in maniera compiuta i prodotti (non solo commerciali) del mondo televisivo. Spesso le cose migliori vengono da lì. Spesso le storie migliori sono raccontate lì. Spesso i migliori spunti vengono da lì, i migliori sceneggiatori vengono da lì, gli attori più ganzi vengono da lì, i registi più in gamba vengono da lì. E lì circolano gli stili di vita in cui le persone si rispecchiano. Il punto è semplice: le serie tv, sia negli Stati Uniti sia soprattutto in Italia, sono diventate un grande laboratorio in cui crescono e fioriscono attori che si fanno le ossa in qualche puntata e che poi, passo dopo passo, diventano grandi. In Italia non esistono casi paragonabili a quello di Aaron Sorkin (sceneggiatore di Social Network, oscar nel 2011, divenuto celebre per aver sceneggiato “The West Wing”) o a di Benedict Cumberbatch (magnifico interprete di una mini serie televisiva sulla Bbc, “Sherlock”, oggi corteggiatissimo a Hollywood) o di Adam Driver (protagonista di “Girls” e appena premiato a Venezia per migliore interpretazione maschile nel film “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo). Esistono casi significativi come quello di “Boris” (serie in cui sono emersi o si sono affermati attori fenomenali – Paolo Calabresi, Biascica; Pietro Sermonti, Stanis La Rochelle; gli sceneggiatori, Valerio Aprea, Massimo De Lorenzo e Andrea Sartoretti – che hanno a poco a poco conquistato anche il pubblico di serie A, ovvero il cinema) o come quello di “Romanzo Criminale” (pensate a Francesco Montanari, il Libanese; a Vinicio Marchioni, il Freddo; ad Alessandro Roja, il Dandi, ieri sul piccolo schermo con Stefano Sollima e oggi ovunque al cinema).

 

[**Video_box_2**]Fare paragoni è complicato, può essere rischioso ed è tutto da vedere se Renzi imporrà questo modello nelle prossime Frattocchie del Pd. Ma se è vero che il modello delle serie tv ha dato la possibilità a molti attori di utilizzare l’universo televisivo come un traino per le proprie carriere (e non come un peso e un peccato mortale) è anche vero che un processo simile comincia a osservarsi nel mondo della politica. E il fatto che Renzi possa utilizzare il modello delle serie tv per avvicinare il pubblico di serie B a quello di serie A (oggi è persino possibile trovare qualche consumatore seriale di un posto al sole disposto a votare Pd) potrebbe essere un buon modo per dimostrare che esiste un’Italia televisiva da cui non si deve scappare, da cui si può persino imparare, e che, insomma, esiste un pezzo di paese degno di essere rappresentato anche se considera di serie B l’Italia impolverata dei Roberto Benigni e dei Nanni Moretti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.