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La guerra di Obama con le armi di Bush

Redazione

Ieri il capo delle forze armate americane, Martin Dempsey, al Congresso ha evocato la possibilità di raccomandare l’invio di truppe di terra contro lo Stato islamico nel caso la coalizione a trazione americana fallisca. E’ l’ennesimo riferimento alle politiche di Bush.

Ieri il capo delle forze armate americane, Martin Dempsey, al Congresso ha evocato la possibilità di raccomandare l’invio di truppe di terra contro lo Stato islamico nel caso la coalizione a trazione americana fallisca. E’ l’ennesimo riferimento alle politiche di Bush, contestato con acrimonia per la gestione militare e giuridica della guerra al terrore. Ma i pezzi di quell’ingranaggio politico-militare continuano a essere riutilizzati anche da Obama. “Il presidente non ha il potere, sotto la Costituzione, di autorizzare unilateralmente un attacco militare in una situazione che non impone di fermare un’effettiva o imminente minaccia alla nazione”, diceva nel 2007 un senatore onusto di purissimi ideali democratici e di rabbia verso gli usurpatori guerrafondai alla Casa Bianca. Sette anni più tardi, un Obama con ideali già meno puri nella bisaccia ha spiegato alla nazione che consultare il Congresso prima di muovere un intervento militare contro lo Stato islamico è attività edificante, ma lui ha “l’autorità per rispondere alla minaccia dello Stato islamico”. Da quale articolo costituzionale o legge faccia derivare tale potere non ci è dato sapere. Gli avvocati della Casa Bianca non hanno articolato pubblicamente una giustificazione legale per i bombardamenti contro i terroristi in Iraq, Siria o “wherever they are”, come dice Obama, e hanno lasciato la questione al conflitto delle interpretazioni giuridiche degli esperti. La reticenza sulle basi legali dell’intervento ha un preciso scopo: evitare di dover ammettere che il presidente sta sfruttando il solco legale tracciato da Bush e Cheney dopo l’11 settembre per giustificare la guerra allo Stato islamico.
A parole Obama depreca con fare disgustato i congegni giuridici creati sull’onda della necessità per condurre la “guerra globale al terrore” – Obama esibisce un rigetto perfino lessicologico per quella vicenda, e ha espunto dal vocabolario presidenziale tanto la guerra quanto il terrore – quando si tratta di agire deve ammettere che quella struttura conferisce capacità decisionale e flessibilità operativa, caratteristiche necessarie per combattere una minaccia obliqua e transnazionale, si chiami al Qaida o Stato islamico. Di fronte al famoso assalto della realtà, Obama deve ammettere che le armi preparate dal suo predecessore tendono a essere efficaci. E’ una tacita riabilitazione degli architetti legali di Bush, a partire da John Yoo, il quale ora insiste sul punto che Obama radicalmente contestava: “Il presidente non ha bisogno dell’autorizzazione del Congresso per attaccare lo Stato islamico”.

 

Vari giuristi di ascendenza democratica dicono, con diversi ordini di ragioni e sfumature, che l’operazione contro i tagliagole in Iraq e Siria è sostanzialmente illegale. Bruce Ackerman, professore di Yale, parla di “uno strappo decisivo nella tradizione costituzionale americana”, e aggiunge: “Nulla di quanto fatto dal suo predecessore, George W. Bush, è vagamente paragonabile in termini di hybris imperiale”. La hybris imperiale è un approdo notevole per chi era salpato sbandierando la restrizione del potere esecutivo. Cass Sunstein, professore di Harvard ed ex funzionario dell’Amministrazione, nonché marito di una delle più ardenti interventiste liberal in circolazione, l’ambasciatrice Samantha Power, sostiene invece che Obama ha l’autorità necessaria per muovere guerra ai terroristi. Cosa gliela conferisce, esattamente? L’Authorization for Use of Military Force (Aumf) del 2001, legge approvata dopo gli attacchi dell’11 settembre con voto unanime del Senato e un solo voto contrario alla Camera. La legge dice che il presidente può “usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che lui determina abbiano pianificato, autorizzato, commesso, o abbiano avuto un ruolo negli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 […] con lo scopo di prevenire futuri attacchi del terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti”. Una dicitura del genere offre ampia libertà di movimento al commander in chief. Era la libertà che Bush, Cheney e i rappresentanti del popolo pensavano fosse necessaria per combattere efficacemente un nemico frastagliato, irregolare. Per Sunstein la lettera e lo spirito di quella legge offrono tutte le giustificazioni necessarie per muovere guerra allo Stato islamico, anche se formalmente non è nato in seno ad al Qaida e dopo una joint venture di dieci anni si è staccato dall’organizzazione capeggiata da Ayman al Zawahiri. Se si bada alla sostanza delle cose, dice Sunstein, gli strumenti sono già tutti sulla scrivania del presidente. Non c’è nemmeno bisogno di manovre ad hoc, dalle quali finora Obama s’è ben guardato. Se l’argomento legale della guerra di Obama è costruito sulle fondamenta piazzate da Bush e Cheney e votate dal Congresso, l’imbarazzo di Obama è presto spiegato. L’Aumf dice: “Il presidente ha l’autorità sotto la Costituzione di agire per scoraggiare e prevenire atti di terrorismo contro gli Stati Uniti”. Concetto molto diverso rispetto a quello che Obama sosteneva nel 2007. E non c’è bisogno di rispolverare la retorica del candidato, che per ragioni appena ovvie è diversa da quella dell’uomo di governo; l’anno scorso Obama ha detto che l’Aumf è “vecchio” e potrebbe “trascinarci in altre guerre che non abbiamo bisogno di combattere oppure dare al presidente poteri senza controllo”. I ragionamenti costituzionalmente corretti sono scomparsi di fronte alla minaccia dello Stato islamico, ed è rimasta soltanto la legge di necessità. La stessa cosa è successa, in modo molto più grave e impellente, dopo l’11 settembre, quando l’America non è stata sequestrata da un cowboy senza legge ma da un commander in chief con senso della realtà che faceva quel che doveva senza infingimenti o illusioni di purezza.