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I Brics sfidano i veti “fallimentari” del blocco euroamericano

Domenico Lombardi

Gli emergenti non vogliono un’altra Argentina e all’Onu invocano default (e salvataggi) non punitivi.

Come anticipato su queste colonne, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato una risoluzione per adottare un meccanismo multilaterale per la ristrutturazione dei debiti sovrani e facilitare la gestione delle crisi debitorie.
Per dare propulsione all’iniziativa, il prossimo 7 ottobre l’Assemblea discuterà dell’attuale crisi argentina e, la settimana seguente, il presidente della medesima Assemblea dedicherà ai contenuti di tale iniziativa un’intera sessione, con l’intervento di esperti internazionali come il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, e agenzie specializzate, tra cui il Fondo monetario internazionale. Entro fine anno, verranno decise modalità, tempi e contenuti della futura convenzione che avrà valore di trattato internazionale per le nazioni che vi aderiranno. Se effettivamente adottata, tale convenzione costituirebbe una novità assoluta nel processo di riforma del sistema finanziario internazionale per la dinamica politica che la sta gradualmente facendo emergere.

 

Non è inusuale per i paesi in via di sviluppo proporre meccanismi statutari che tutelino il debitore sovrano e i creditori cooperativi nella risoluzione delle crisi sovrane. Nel 1933, il Messico formulò la prima proposta del genere alla conferenza panamericana. Una simile proposta fu avanzata nuovamente durante i lavori preparatori della conferenza di Bretton Woods nel 1944. Nel 1978, l’agenzia dell’Onu Unctad riaprì il dibattito sul tema. Nella metà degli anni Novanta, l’economista di Harvard di area democratica, Jeffrey Sachs, propose che il Fmi diventasse un tribunale fallimentare per i debitori sovrani e, un decennio più tardi, la sua collega repubblicana di Stanford, Anne Krueger, collocata ai vertici del Fmi dall’Amministrazione Bush, presentò l’ultima proposta, ad oggi, per un meccanismo statutario. Quello che hanno in comune tali proposte è che sono state invariabilmente affondate sul nascere da un gruppo misto, composto sia da autorevoli paesi creditori sia da paesi debitori cooptati ma timorosi di compromettere con il loro appoggio la capacità di ricevere finanziamenti dai primi.

 

Nel caso di questi giorni, invece, la novità è stata la capacità dei cosiddetti Brics – acronimo per Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – di compattarsi e galvanizzare la comunità dei paesi emergenti e in via di sviluppo attorno a un importante aspetto di riforma dell’architettura finanziaria internazionale, sfruttando l’infelice e recente sentenza di un tribunale di New York che ha costretto l’Argentina a un nuovo default. Il loro successo è stato duplice: da un lato, mai una proposta del genere era giunta allo stadio di risoluzione dell’Assemblea generale; dall’altro, hanno dato prova di un’inedita capacità politica e progettuale utilizzando tatticamente l’Assemblea – piuttosto che il Fmi – dove tale intento progettuale può essere più efficace. Non è un caso, inoltre, che nella coalizione cementata dai Brics, vi sia la Turchia che presiederà il G20 dopo il summit australiano di metà novembre mentre sarà la stessa Cina a presiederlo nel 2016.

 

[**Video_box_2**]Il Gruppo dei 77, la cornice politica in cui i 133 paesi emergenti e in via di sviluppo concordano le proprie posizioni in sede Onu, era al corrente che i paesi avanzati si sarebbero opposti alla risoluzione di martedì scorso. Invece di congelare l’iniziativa e attivare canali di comunicazione informali alla ricerca di un consenso che il modus operandi dell’Assemblea implicitamente impone ai suoi membri, la presidenza boliviana del Gruppo, dietro la sapiente regia politica di Pechino, ha insistito nel mantenere l’ordine del giorno e chiamare il voto sulla risoluzione. Dei 193 paesi membri, 11 paesi hanno votato contro e 41 si sono astenuti. Tra i primi, gli Stati Uniti e il Regno Unito ma anche la Germania. Tra gli astenuti, 22 paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia. Sono assai diverse le motivazioni alla base del voto contrario e, soprattutto, dell’astensione. Vi ha contribuito la tempistica della risoluzione a ridosso delle vacanze estive che ha complicato l’interazione tra le rappresentanze nazionali e le rispettive capitali; un certo disagio delle delegazioni diplomatiche a occuparsi di questioni apparentemente tecniche; e la volontà di confinare la discussione presso il Fmi che, oltre ad essere un’agenzia specializzata nella materia, è anche la sede multilaterale dove le economie avanzate hanno maggiore potere e sono pertanto in grado di controllarne l’agenda con estrema efficacia.

 

Per la Germania, in particolare, il voto contrario riflette la volontà di non riaprire formalmente una conversazione che, all’apice della crisi nell’Eurozona, ha antagonizzato il nord e il sud dell’area monetaria, anche se tale conversazione continua in tavoli riservati e per vie oblique. Tale voto nasconde, in realtà, una certa ritrosia nel sostenere un meccanismo statutario che, per definizione, ridurrebbe la discrezionalità politica nella gestione delle crisi sovrane rafforzandone, invece, trasparenza, predittività ed equità. Mai tale motivazione politica è stata così coerentemente espressa dall’Amministrazione Obama nelle varie sedi multilaterali. Oltre ad opporsi, in principio, a qualsiasi meccanismo statutario nella gestione delle crisi sovrane in linea con le Amministrazioni precedenti, la Casa Bianca oggi è contraria alla rimozione della cosiddetta clausola di “esenzione sistemica” nel Fmi; un meccanismo adottato dal suo consiglio di amministrazione per avocare a sé piena discrezionalità nell’erogare prestiti di emergenza sfuggendo così a qualsiasi limite statutario. Adottata alla vigilia del primo programma di assistenza per la Grecia – programma approvato nel maggio 2012 che consiste nel più grande prestito che l’organizzazione con sede a Pennsylvania Avenue abbia mai erogato nella sua storia a un paese membro – tale esenzione può essere attivata unilateralmente ogni volta che il suo consiglio di amministrazione ravveda un rischio sistemico. In pratica, essa fornisce il paravento istituzionale per attivare, su base puramente discrezionale, massicci programmi di aiuto a paesi politicamente rilevanti per il gruppo di comando dell’istituzione, a scapito di altri per i quali, al contrario, valgono i consueti limiti statutari parametrati sulle rispettive quote di capitale.

 

La permanenza di questo vincolo, pertanto, rischia di vanificare almeno in parte qualsiasi tentativo di migliorare l’architettura della gestione delle crisi sovrane poiché indebolisce l’incentivo degli attori in gioco a concordare una preventiva, ma più limitata, ristrutturazione del debito, nel caso esso diventasse insostenibile. Ma dopo la risoluzione dell’Assemblea diventa più facile per le economie emergenti negoziare con Washington.

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