Le dighe mobili del Mose di Venezia (Foto LaPresse)

Se faccia più danni corrompere infrangendo le leggi, o corrompendole

Franco Debenedetti

Di corruzione si può scrivere con la lente del magistrato, con i modelli dell’economista, con la gioia perversa del moralista. Se ne può scrivere anche con amore e dolore, amore per una delle più straordinarie città del mondo, dolore per gli scempi, morali e fisici, che in suo nome si sono compiuti.

Di corruzione si può scrivere con la lente del magistrato, con i modelli dell’economista, con la gioia perversa del moralista. Se ne può scrivere anche con amore e dolore, amore per una delle più straordinarie città del mondo, dolore per gli scempi, morali e fisici, che in suo nome si sono compiuti: Venezia. E’ quello che fanno Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri in “Corruzione a norma di legge”.

 

Si può corrompere, è la loro tesi, infrangendo le regole, oppure corrompendole. Quando le si infrangono, tra chi ha il potere di decidere dell’esecuzione di un’opera e chi la esegue c’è un rapporto diretto, di corruzione o di concussione. Quando le si corrompono, il rapporto è mediato dalla legge, che rende legale l’estrazione della rendita da parte del beneficiario, impresa o consorzio di imprese, a vantaggio del quale è stata scritta.

 

Nella corruzione classica la rendita è estratta da chi ha il potere di decidere: i partiti hanno interesse a formare una sorta di cartello, con regole generali per la spartizione della rendita. E’ la situazione che, semplificando un po’, si considera prevalesse fino all’inizio degli anni 90, la Tangentopoli che suggellò il crollo della Prima Repubblica. Per evitare che potesse ripetersi, pensammo di combatterla con la concorrenza. In effetti la legge maggioritaria per i sindaci e la democrazia dell’alternanza ruppero il cartello dei partiti, l’eliminazione dei monopoli di stato aumentò l’interesse a formare consorzi di imprese: diventò più difficile corrompere infrangendo le leggi, aumentò l’interesse a corrompere con le leggi.

 

I due modelli, più che corrispondere a due periodi storici, riflettono due diversi rapporti di forza, a favore del cartello dei partiti il primo, dei consorzi di imprese il secondo. E’ alla fine degli anni 80, in piena Tangentopoli, che Lorenzo Necci pensò di assegnare la costruzione dell’Alta Velocità ai tre main contractor Iri, Eni, Fiat. E’ per contro ancor di recente, a proposito di Expo, si sente parlare di tangenti, anche se prevalentemente per subappalti e a livello municipale o regionale. 

 

Qual è il “rendimento economico” della corruzione? Il modello Shleifer Vishny prevede che, quando il potere di concedere una licenza è nelle mani di un politico (nel caso di Tangentopoli di un “cartello” politico) molti imprenditori concorrono per ottenere quel permesso, quel politico  (o quel cartello) farà pagare a chi ottiene una licenza una tangente uguale all’intero beneficio che ne ricaverà. Se questo è il modello della corruzione per infrazione, il modello duale dovrebbe valere per la corruzione con le leggi, quando cioè il cartello di imprese si presenta come l’unica che ha la capacità di eseguire, e quindi impone alla coalizione politica di turno una legge con la quale lucrare i frutti della corruttela. Al diverso rapporto di forza corrisponde una diversa ripartizione del profitto della corruzione. Ne viene modificata anche l’entità? Probabilmente, riconoscono gli autori, nel caso del Mose di Venezia non ci fu neppure corruzione materiale all’origine della legge che diede la concessione unica a un Consorzio di imprese, affidando a un soggetto unico studi, progettazione ed esecuzione delle opere per la salvaguardia lagunare. “Il Consorzio Venezia Nuova” disse Gianni De Michelis nel 1984 “è un’idea politica, un progetto nato in sede politica. Se chi ha la responsabilità dei pubblici poteri non è all’altezza di gestire le proprie idee può solo essere travolto”. E travolto fu. Sul Consorzio si costruì un sistema che finì per sostituirsi allo stato nel regolare i rapporti non solo economici, ma politici, perfino culturali di gran parte della regione: una horror story che fa leggere il libro in un fiato come un romanzo giallo. E dopo che la figura del concessionario unico fu sostituita, da una legge del governo Ciampi nel gennaio 1994, da una costituenda società tra ministero dei Lavori pubblici e regione Veneto, nel maggio 1995 il governo Dini fece una legge per cui “restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti”: poche parole che valgono centinaia di milioni, commentano amaro Giavazzi a Barbieri.

 

Si dà il caso che io quella legge devo averla votata. Ero in Senato, ma mi occupavo di privatizzazioni e dintorni, c’era stata l’Ina, come forse Giuliano Ferrara ricorda, avrò votato secondo le indicazioni del capogruppo. Ridicolo pensare che questi ne avesse un tornaconto personale, poco credibile che tornaconti se ne trovassero anche risalendo la catena decisionale. Molto probabilmente avranno fatto presente a Dini che la legge Ciampi bloccava tutto, ed egli avrà pensato che fosse interesse del paese risparmiare al suo governo polemiche (eran passati quasi trent’anni dall’inondazione): suo compito era traghettare il paese alle elezioni, a mettere ordine nell’intricata questione ci avrebbe pensato pochi mesi dopo il futuro governo.  Aveva torto Dini a chiedere alla sua maggioranza di votarlo?

 

Ci furono tornaconti personali anche nella vicenda dell’Alta Velocità,  la seconda delle storie analizzate da Giavazzi e Barbieri?  Sulla concessione senza gara ai tre main contractor il giorno prima che entrasse in vigore la legge europea sugli appalti ci furono indagini, della magistratura e della Commissione europea: ma nulla emerse che facesse supporre che quella decisione fosse il risultato di corruzione. Lorenzo Necci fu incarcerato, e processato per questioni minori (una consulenza a Nomisma, la costruzione di una stazione): e fu assolto anche da quelle. D’altra parte chi in Italia avrebbe potuto eseguire un’opera di tale impegno? Eni e Iri erano dello stato, quindi si trattava – quante volte l’ho sentito dire! – di una partita di giro, soldi che escono da una tasca ed entrano nell’altra; e come si faceva a lasciar fuori la più grande e più rappresentativa delle imprese private? Oggi sono in tanti a sostenere che per uscire dalla stagnazione e dalla disoccupazione si debba ricorrere a investimenti pubblici: si scandalizzeranno se allora si decise che lavori pagati da noi venissero eseguiti dalle nostre imprese? Si scandalizzeranno quelli per cui “nostre aziende” significa che il loro controllo è fermamente nelle mani dello stato?

 

Il processo di appropriazione delle rendite è più lungo e meno diretto. Per prima cosa bisogna che venga costituito il capitale, che cioè si decida (e si stanzi effettivamente)  danaro pubblico per quel determinato scopo. Bisogna creare il consenso nell’opinione pubblica. A questo  servono economisti e sociologi, defunti e no: ci penseranno loro a sostenere l’utilità di manovre keynesiane, la necessità di mantenere il controllo di “aziende strategiche”, a radicare la convinzione che l’Italia ha un deficit di infrastrutture, e che questo è all’origine di molti nostri mali: dall’eccesso di trasporto su gomma, alla carenza di difese dei nostri patrimoni artistici. Una convinzione, in generale, probabilmente infondata, come dimostrano i nostri autori, ma indispensabile per creare i presupposti ideologici per la spesa. Così quando si seppe dei vantaggi, anche economici, dei TGV Parigi-Lione, immemori del fatto che col Settebello sulla direttissima Firenze-Roma avevamo costruito noi il primo tratto di ferrovia ad alta velocità d’Europa, adottammo l’idea dei francesi, e perfino le loro specifiche tecniche. Insieme agli entusiasmi ci furono, da subito, le critiche: l’AV sarebbe servita solo a far risparmiare tempo ai ricchi. A salvare il progetto furono gli ambientalisti: sulla nuova rete, integrata con la vecchia, sarebbero passati anche i treni merci, l’Alta Velocità diventò Alta Velocità/Alta capacità. Esercizio di retorica politica, questione di lana caprina di difficile comprensione, come ritengono i ricercatori dell’Ires Piemonte? In ogni caso la mutazione fu lunga e dispendiosa: obbligò a rifare un progetto già compiuto, per far passare i merci si ridussero velocità massima e pendenza. Si realizzò la strana sovrapposizione tra chi considerava che ridurre il traffico su gomma fosse un progetto di “protezione ambientale”, e i costruttori: gallerie più lunghe (per la ridotta pendenza), e maggior numero di raccordi tra nuova e vecchia linea, le faraoniche costruzioni visibili dall’autostrada Torino-Milano, e su cui non ho mai visto transitare un treno.

 

[**Video_box_2**]Corruzione da parte degli ambientalisti? Siamo seri. Da parte dei costruttori? Ne colsero i frutti, ma non sarebbero mai stati in grado di farli maturare. E’ la “legge universale del no”: rende sempre, quasi mai all’utile idiota che se ne è fatto portavoce. Le varianti costano, i ritardi mettono in posizione di forza per far aumentare i prezzi, il disastro, reale o ingigantito, ha un valore incalcolabile. E’ qui che il lungo processo, iniziato con la semina delle idee, poi tradotto in decisione politica, e infine stipulato dai legali, alla fine si traduce nel frutto della corruzione: le varianti in corso d’opera, il recupero dei ritardi, i subappalti, le consulenze. L’Expo (altro caso esaminato dai nostri autori) è un esempio da manuale di quanto può valere l’emergenza: un solo giorno di ritardo rispetto alla data convenuta riduce a zero il valore di quanto già fatto e produce una perdita di immagine irreparabile. Eppure nel tira e molla tra comune e regione su chi dovesse comandare si sono persi due anni. Si fa fatica a credere che non esista proprio nessun nesso tra i due mondi, quello dei politici che si battono per i  diritti delle istituzioni che rappresentano, e quello dei costruttori che sanno che ogni giorno che passa riduce il potere negoziale del committente, e aumenta la probabilità che si verifichino occasioni per chiedere aumenti di prezzo.

 

Giavazzi e Barbieri non vogliono lasciarci con l’amaro in bocca, il libro si chiude con uno spiraglio di lieto fine, sulle cose che si possono fare per contenere la corruzione in limiti fisiologici (non è piccolo merito degli autori ricordarci che lavori a prova di corruzione non esistono). Come scrivere l’appalto, quali criteri adottare per valutare le offerte, come scegliere la più conveniente; i performance bond, vantaggi e rischi rispetto alle fideiussioni che prevalgono da noi; controllo di qualità e dei costi. Aggiungo io, migliorare il funzionamento dei controlli esistenti: in diversi momenti della vita del Mose la Corte dei Conti ne denunciò le anomalie, senza che poi succedesse alcunché. Gli autori auspicano l’introduzione dei whistleblower, coloro che, protetti dal segreto e incentivati dalla taglia sui risparmi procurati, denunciano le malefatte. E’ la sola cosa del libro su cui non sono d’accordo. E non solo perché non capisco perché ai whistleblower dovrebbe andar meglio che ai magistrati della Corte dei Conti.

 

Io guardo con commiserazione gli automobilisti (avete presente gli svizzeri?) che ti prendono la targa se gli hai suonato dietro; diffido da chi dice “intercettateci tutti”; non credo all’autenticità da streaming; considero innocui quanti invidiano gli inglesi che possono sapere quanto spende la regina per la manutenzione dei computer, meno innocui quanti gli fan credere che quella sia la “spending review”. E nutro repulsione incoercibile (e che non intendo reprimere) verso gli stati che legittimano o organizzano o comprano le delazioni. Perché incominci a spiare i vicini e non (?) sai dove vai a finire. E perché penso che se non c’è un minimo di organizzazione della macchina amministrativa, di efficienza del suo funzionamento, di (vogliamo usare la parola desueta?) dignità di chi vi lavora, i fischietti non serviranno a nulla. Peggio, saranno anch’essi occasione di corruzione. A norma di legge.

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