Stefan Löfven (foto Ap)

In Svezia, più della nostalgia del welfare potè l'immigrazione

Marco Valerio Lo Prete

L’exploit dei Democratici svedesi che chiedono una stretta alle frontiere. Andreas Bergh, l’anti Piketty svedese, spiega al Foglio che dopo otto anni di governo riformatore di centrodestra, anche la sinistra che fu di Olof Palme si è di fatto convertita allo “stato welfarista ma capitalista”.

Roma. Ieri mattina anche la Borsa di Stoccolma era incerta, perciò ha perso mezzo punto in apertura. Nel fine settimana gli elettori del paese scandinavo hanno votato – con un’affluenza dell’83,4 per cento, più alta della media europea – e hanno deciso di voltare pagina dopo otto anni di governo dei liberali del centrodestra guidato da Fredrik Reinfeldt. Per andare dove, però, è meno sicuro. Il primo partito adesso è quello Socialdemocratico, con il 31,2 per cento dei consensi, quasi lo stesso risultato di quattro anni fa. Il Partito moderato del primo ministro Reinfeldt, invece, ha perso 7 punti, scendendo a 23,2 per cento. Così la coalizione di sinistra ha staccato di soli quattro punti quella di centrodestra, 43,6 contro 39,4 per cento: l’ex sindacalista che la guida, Stefan Löfven, ha detto di voler tentare la strada del governo di minoranza che potrà cercare di volta in volta l’appoggio dei partiti minoritari di centro se non addirittura quello dei moderati. Ma non mancano gli osservatori che addirittura ipotizzano un ritorno alle urne in tempi relativamente brevi, nel caso la navigazione parlamentare si facesse più difficile in tempi di approvazione della legge finanziaria.

 

Ad aver guadagnato più consensi, rispetto alle elezioni del 2010, sono stati i Democratici svedesi, il partito anti immigrazione ed euroscettico col fiorellino blu di anemone nel simbolo e col gusto per i candidati che vengono dalle file degli immigrati di seconda generazione: il movimento è passato in quattro anni dal 5,7 al 12,9 per cento. “Noi ora siamo l’ago della bilancia in Parlamento – ha dichiarato il leader 35enne Jimmie Åkesson, ex web designer – Dobbiamo poter governare questo paese per i prossimi quattro anni, e questo sarà difficile se gli altri partiti non sono pronti a parlare con noi o ad ascoltarci”.

 

Svolta a sinistra, insomma, ma fino a un certo punto. D’altronde anche il settimanale Economist, alla vigilia del voto, aveva sostenuto che gli svedesi avrebbero probabilmente deciso di cambiare guida politica più per la fisiologica stanchezza di vedere sempre le stesse facce al potere da otto anni e per i fondamentali dell’economia in ordine che consentono di prendersi qualche rischio, che non invece per la volontà di tornare alla socialdemocrazia dura e pura. “Quel che molti osservatori internazionali sottovalutano è quanto l’economia svedese e i socialdemocratici siano cambiati negli ultimi anni – dice al Foglio Andreas Bergh, professore di Economia all’Università di Lund – Il nuovo governo aumenterà di poco le tasse, ma non tornerà ai livelli raggiunti all’inizio degli anni Novanta. Il bilancio pubblico rimarrà solido. Ammesso che si riesca a formare un governo”.

 

[**Video_box_2**]Bergh, che ha appena scritto il libro “Sweden And The Revival Of The Capitalist Welfare State” (edizioni Edward Elgar), è considerato l’anti-Piketty scandinavo. E’ stato lui stesso a criticare analisi e conclusioni dell’economista francese, Thomas Piketty, che con il suo “Il Capitale nel XXI secolo” ha spopolato negli Stati Uniti. La Svezia dimostrerebbe che non esiste una legge di natura che vede in conflitto capitale e lavoro: “Per circa un secolo, dal 1870 al 1970 – ha scritto Bergh – la Svezia è riuscita a combinare un’economia capitalista che generava ricchezza e un’eguaglianza in aumento. Questo sviluppo straordinario ha portato alla percezione, comune ma erronea, per cui la Svezia dimostrerebbe in qualche modo che il socialismo può funzionare. Come documento nel mio libro, invece, la Svezia non era poi così socialista quando la prosperità aumentava. Le tasse in Svezia erano basse come quelle degli Stati Uniti, o perfino più basse, fino al 1960 circa. Sarebbe dunque più corretto usare la Svezia come esempio per dimostrare che il capitalismo genera prosperità”. Dopodiché, soprattutto durante gli anni Settanta, Stoccolma “applicò tasse molto elevate sia sul capitale sia sul lavoro, e i risultati non sono stati incoraggianti”.

 

Il governo di centrodestra negli ultimi otto anni ha garantito una crescita ragguardevole, 12,6 punti percentuali di pil in più nonostante la crisi, e ha portato il debito pubblico al 40 per cento del pil. “Ma le riforme più importanti, cioè quelle che hanno contribuito a generare un clima positivo per fare business, sono durate quasi vent’anni, hanno subìto un’accelerazione dopo la crisi del 1990, e sono state introdotte in maniera bipartisan – dice Bergh – Oggi tra i fattori positivi ci sono una burocrazia e un sistema legale efficienti, l’enfasi sulla ricerca, una significativa apertura ai mercati internazionali e una bassa tassazione sulle imprese”. Anche il sociologo Luca Ricolfi, editorialista della Stampa, nel suo ultimo libro “L’enigma della crescita” (Mondadori) sottolinea che più che la pressione fiscale complessiva (comunque in calo in Svezia negli ultimi anni) e il livello di spesa pubblica (ancora attorno al 50 per cento del pil), Stoccolma dalla metà degli anni Novanta ha “realizzato una sorta di miracolo, alte tasse e alta crescita”: “La pressione fiscale complessiva è molto alta, l’imposta sul valore aggiunto è al 25 per cento, le tasse sul lavoro non sono certo leggere ma le imposte che gravano direttamente sulle imprese sono fra le più basse d’Europa”. Il governo di centrodestra, che per il 2014 stima un pil in crescita di oltre due punti e un tasso di disoccupazione dell’8 per cento, secondo Bergh ha poi accentuato il carattere “capitalista” del “welfare state”: “Riducendo i trasferimenti di spesa, come sussidi alla disoccupazione e pensioni, e mantenendo alto lo standard dei servizi pubblici. Con questi ultimi che sono forniti, sempre più spesso, anche da soggetti privati, nella scuola come nella sanità”.

 

Gli elettori svedesi non intendono buttare al mare tutto questo: “Piuttosto hanno dimostrato un maggiore interesse sui temi dell’immigrazione e della scarsa integrazione dei nuovi arrivati”, dice Bergh. Con più del 15 per cento della popolazione nato all’estero e 115 mila arrivi nel solo 2013 – su una popolazione complessiva che non raggiunge i 10 milioni – alle urne più della nostalgia del welfare potè l’immigrazione.

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