Piero della Francesca, Resurrezione, affresco eseguito tra il 1450 e il 1463 circa e conservato nel Museo Civico di Sansepolcro

Il cristianesimo che muore, Ceronetti, Péguy, la Resurrezione di Piero

Maurizio Crippa

Il lutto di questa morte è legittimo, o per meglio dire è forse la cosa più interessante su cui un occidentale raziocinante del Terzo millennio, rimasto solo e senza più santi nel buco nero, possa interrogarsi. Rammaricarsi.

Guido Ceronetti s’interroga sul “cristianesimo che muore”. Sente che “si tratta di un’amputazione enorme, in anestesia totale, in modo che nessuno se ne accorga”. Non s’è riconvertito, scrive su Repubblica, ma lo sente come “personale ferita”. Ceronetti ha buoni indizi per avere ragione. Sull’anestesia totale meno, quella riguarda noi (voi?) laici occidentali, i martiri dei califfi di solito fanno senza. Ceronetti ha prosa e gusto d’apocalissi e infila una serie di rilievi autoptici da valutare. Ne spreme la sintesi da un aforisma di Cioran: “Il cristianesimo è morto quando ha cessato di essere mostruoso”. Per Ceronetti, per Cioran, e per quel molto o poco di pensiero laico o cristiano che ancora circola, e che chiameremmo della Tradizione, mostruoso significa latinamente monstrum, o evangelicamente skandalon, gesto divino che spezza e giudica l’umano. Il cristianesimo ha smesso di essere tale quando ha smesso di fare processi alle streghe, e s’è acconciato a subire la mano della giustizia secolare. Ha smesso di essere l’immagine in terra del giudizio di Dio quando il Papa è sceso dalla sedia gestatoria per mettersi a viaggiare, fin “nell’orrida bruttezza di una piazza di Seul”. Di che stupirsi, se ora la fede monoteista dell’occidente muore sgozzata nei deserti d’oriente?

 

Se la morte del cristianesimo è questa, allora il cristianesimo è morto. Charles Péguy, il più grande poeta e pensatore cristiano d’occidente degli ultimi due secoli, morto alla Marna giusto cento anni fa, ai primi colpi della guerra con cui gli Imperi Nuovi sprofondarono in un buco nero quel che restava della cristianità politica d’occidente, lo aveva del resto già annotato con taccuino da cronista ben prima che ne iniziasse la  “lunghissima agonia mortale”, come dice Ceronetti. Ma Péguy che andava pellegrino a Chartres, davanti a Chartres scrisse una preghiera, o una poesia forte come una preghiera, che aveva la morte nel cuore ma non odora di morte: “Ecco il luogo del mondo dove tutto diviene facile, […]. / Ciò che dappertutto altrove è un’aspra lotta /  E una lama da macello tesa alla gola, / Ciò che dappertutto altrove è la potatura e l’innesto /  Qui non è che il fiore e il frutto del pesco […].  / Ciò che dappertutto altrove è la noiosa abitudine / Seduta accanto al fuoco, le mani sotto il mento, /  Ciò che dappertutto altrove è solitudine / Qui non è che un vivace e forte germoglio […]. /  Ce ne han dette tante, Regina degli apostoli, / Abbiamo perso il gusto dei discorsi  /  Non abbiamo più altari se non i vostri / Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice”. Se il cristianesimo muore, allora è morto da cent’anni. O è l’occidente che è diventato mostruoso, in senso teratologico, quando disfandosi dello scandalo volle farsi umano, troppo umano?

 

[**Video_box_2**]Come che sia, il lutto di questa morte è legittimo, o per meglio dire è forse la cosa più interessante su cui un occidentale raziocinante del Terzo millennio, rimasto solo e senza più santi nel buco nero, possa interrogarsi. Rammaricarsi. “Se il cristianesimo è irresistibilmente attratto da un Buco Nero, il vuoto che lascerà non sarà colmabile”, scrive Ceronetti, osservazione non scontata.  Per lui, in realtà, la morte del cristianesimo somiglia più che altro a un nuovo ingrediente da infilare nel calderone di un nichilismo nero, vagamente esoterico, un altro petalo del crisantemo cosmico. “Tutte le fedi monoteiste sono risucchiate dal Buco Nero”, dice. Pure Emanuele Severino da mezzo secolo dice che saranno risucchiate dal Nulla della Téchne. Diverso è pensare, interrogarsi sul destino del cristianesimo nel momento in cui cessa di essere occidentale (magari perché si fa troppo misericordioso e callejero, sarà questo il punto?) per consegnarsi ai suoi concreti o simbolici sgozzatori.

 

Quest’estate sono stato a San Sepolcro, in pellegrinaggio come Péguy, a vedere la Resurrezione di Piero. E’ la versione più occidentale della vittoria di Cristo sulla morte che si possa immaginare. Se invece ha ragione Ceronetti, non resterà un giorno che morire gridando come tanti Goethe senza poesia “più luce!”. Il tema è tremendamente pascaliano, a patto non diventi noioso dibattito e abitudine, con le mani sotto il mento.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"