Romano Prodi (foto LaPresse)

I tagli, Prodi e il tic italiano d'inventarsi il nemico “liberista” che non c'è

Natale D'Amico

Pare che a Cernobbio l'ex presidente del Consiglio abbia biasimato l’incredibile circostanza del ritorno “in auge” delle “idee della scuola liberista austriaca”. Ma perché dovrebbe pensare che le attuali politiche dei governi europei siano debitrici alla scuola “austriaca” dell’economia?

Pare che a Cernobbio Romano Prodi abbia biasimato l’incredibile circostanza del ritorno “in auge” delle “idee della scuola liberista austriaca”. Con ciò suggerendo che proprio quelle idee ispirino la cosiddetta “austerità”. Ma perché Prodi dovrebbe pensare, e noi con lui, che le attuali politiche dei governi europei siano debitrici alla scuola “austriaca” dell’economia?
Banalizzandola, la teoria “austriaca” del ciclo economico sostiene che, se non vi fosse un’espansione del credito bancario, domanda e offerta tenderebbero all’equilibrio attraverso il sistema dei prezzi. Non ci sarebbero né i boom né la necessità, che logicamente ne deriva, di robuste correzioni. Invece, le Banche centrali stimolano l’espansione del credito bancario e l’esplosione di moneta bancaria abbassa artificialmente il tasso di interesse. Gli imprenditori sono “sedotti” dalla moneta facile e prendono le loro decisioni come se fossero disponibili più risparmi da investire di quanti non ce ne siano, “sovrainvestendo” in beni capitali. Il boom inflazionistico induce una distorsione sistematica dei prezzi dei fattori produttivi e la “depressione” diventa allora l’inevitabile momento riequilibrante. La risposta austriaca sarebbe pertanto “liquidazionista”, e tale – secondo Prodi – sarebbe pure l’atteggiamento dei governi europei, in questa recessione.

 

In realtà la posizione austriaca non coincide con un elogio del dolce far niente. Una lettera al Times di Hayek, Lionel Robbins e altri economisti della London School of Economics, pubblicata nel 1932 in risposta a una lettera di Keynes e altri economisti di Cambridge, aiuta a chiarirne le indicazioni “normative”. Hayek e Robbins suggerivano di “abolire quelle restrizioni ai commerci e al libero movimento dei capitali (incluse le restrizioni sui titoli di nuova emissione) che attualmente impediscono anche solo l’avvio della ripresa”. C’è una qualche somiglianza fra tale posizione e il mantra delle “riforme strutturali”. Queste ultime, in effetti, dovrebbero servire a rendere più facile la riallocazione dei fattori produttivi, consentendo così di riavviare quegli scambi senza i quali non può esserci crescita. Ma queste riforme, spesso più annunciate che messe in atto, sono il risultato di un’adesione ideologica? Non pare proprio. Di politici hayekiani in giro se ne vedono pochi: altrimenti la spesa pubblica non sarebbe così prossima ad assorbire metà del prodotto interno lordo.

 

[**Video_box_2**]Gli avversari dell’austerità, questi politici hayekiani se li inventano, semplicemente perché hanno bisogno di un nemico, un avversario da combattere: alla peggio, qualche “economista defunto”. Se veramente vanno cercando chi rende impossibile seguire, oggi, le loro tradizionali ricette, dovrebbero guardarsi allo specchio. Il perché è presto detto. La politica monetaria, non sarà certo una sorpresa per i keynesiani, incontra alcuni limiti; nelle recessioni può essere inefficace. Ma anche la politica di bilancio ha limiti severi. Per fare spesa in deficit, uno stato deve trovare chi compri i suoi bond. E gli investitori, prima o poi, si pongono la domanda drammatica: lo stato che sto finanziando sarà in grado di onorare i suoi debiti? Nel 2011 non è stato il fantasma di Hayek a imporre all’Italia l’aggiustamento di finanza pubblica. Sono stati piuttosto i nostri creditori, che hanno preteso un tasso d’interesse velocemente crescente (l’estate dello spread) per continuare a finanziare la nostra spesa pubblica. Neanche i pasti keynesiani sono gratis.

 

Piacerebbe ai politici che ci fosse da qualche parte un torchio della moneta che evitasse loro di fare i conti con la realtà. Oppure che si potesse obbligare qualcuno a comprare i loro titoli di stato. Così potrebbero offrire agli elettori la botte piena, la moglie ubriaca e l’uva sulla pianta. Sono illusioni costose. Per superarle, un economista non esattamente hayekiano come Beniamino Andreatta volle il cosiddetto divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia. Quel divorzio si è fatto più completo con l’adesione dell’Italia all’euro, vicenda nella quale il ruolo di Prodi non è stato certo marginale.

 

Adesso molti eurofili della prima ora sembrano cadere dal pero. Come se non avessero ben compreso che all’interno di un’area monetaria unica il funzionamento dei meccanismi di aggiustamento è simile a quello presente in un sistema di gold standard. Se un paese “perde competitività”, perde moneta; o riporta la crescita della propria produttività verso quella dei paesi concorrenti, ovvero è costretto ad abbassare i propri costi, a partire dai salari.

 

Non stupisce che anche personalità lontanissime dal “liberismo austriaco”, e fra loro il pragmatico Mario Draghi, auspichino “riforme strutturali”: riforme microeconomiche, dal lato dell’offerta, volte a perseguire una migliore allocazione dei fattori produttivi, pena una dolorosa compressione dei salari reali. Per carità, si può sempre sperare che sia qualcun altro a pagare. Se il torchio della moneta non è sufficiente a generare inflazione, si auspica che l’Unione trasferisca risorse fra paesi. E si finge di dimenticare che proprio l’esclusione di questi trasferimenti costituì la condizione sine qua non della moneta unica. L’ultima moda consiste nello spiegare alla Germania cosa dovrebbe fare; lezione impartita da chi ha tassi di disoccupazione giovanile prossimi al 50 per cento, comprensibilmente non presa molto sul serio da chi li ha a meno del 10.

 

Lungi da noi essere corrivi verso la generalizzata criminalizzazione dei sistemi di idee, quasi se ne potesse davvero fare a meno. Ancor meno ci lagneremmo se davvero avessero prevalso “idee liberiste austriache”. Ma non serve che un po’ di realismo per convincersi che non ne verremo fuori se non cambiando il nostro welfare, facendo funzionare la giustizia, la scuola, etc. Nostra opinione è che questi cambiamenti non ci saranno, o comunque non saranno efficaci, se non ridurremo il ruolo dello stato. Ma questa è per l’appunto la nostra visione ideologica, temiamo nient’affatto maggioritaria.

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