Matteo Renzi, a sinistra, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti. Entrambi ex Margherita, tendenza Rutelli

Er governo Rutelli

Claudio Cerasa

Ministeri, sottogoverno, partito, consiglieri. Ma che ci fanno tutti questi rutelliani a Palazzo Chigi? Colazione pettegola con l’ex sindaco di Roma per sfogliare la margherita del governo Leopolda

Che poi uno passa intere giornate a studiare. A sfogliare i libri di storia. Ad azzardare paragoni. A ricordare i successi del New Labour, gli anni della Terza Via, i trionfi dell’Spd, il faccione di Gerhard Schröder, il sassofono di Bill Clinton, il ciuffone di Tony Blair. E poi, invece, sfogliando la margherita del governo e ovviamente del Pd, è tutto più semplice ed elementare. E te ne accorgi quando passeggi per Palazzo Chigi, e osservi le facce, ricordi i nomi, le storie, i percorsi, gli intrecci, le origini, e quindi unisci i puntini. Matteo Renzi. Luca Lotti. Graziano Delrio. Lorenzo Guerini. Dario Franceschini. Lapo Pistelli. Roberta Pinotti. Persino Filippo Sensi. Persino Giuliano Da Empoli.

 

Unisci i puntini, dunque, e ti allontani dalla Germania, dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, e ritorni in Italia, ti avvicini a Roma e allora pensi che in fondo, ok, ci possono stare i parallelismi con Blair, gli accostamenti con Schröder, le brillanti narrazioni sulla nuova Terza Via (salvo, per pietà, non citare quanto valgono nelle rispettive nazioni i partiti neo socialisti che sognano di scrivere con Renzi una nuova stagione del blairisimo). Ci sta tutto, d’accordo. Ma a guardar bene per capire con un sorriso l’origine più lineare del governo Renzi forse non bisogna prenderla così alla lontana. Forse basta rimanere in Italia, a Roma. Perché Matteo Renzi, in fondo, lo ha scoperto lui, quando il premier era presidente della provincia e quando lui era il capo del partito oggi – comunisti chi? – più rappresentato al governo. Perché Luca Lotti in qualche modo lo ha cresciuto il suo partito, e lui ricorda ancora quando, giovanissimo, l’attuale braccio destro di Renzi – “Il Luca” – lo andava a prendere in macchina alla stazione per fargli girare Firenze. Perché Filippo Sensi, portavoce di Renzi, fu anche il suo portavoce, quando lui fu sindaco di Roma e anche ai tempi della margherita. Perché Dario Franceschini, oggi ministro dei Beni culturali, azionista forte del governo, ai tempi, prima di prendere un’altra strada, era, negli anni della Margherita, il coordinatore della sua segreteria.

 

Da sinistra verso destra: Delrio, Guerini, Pinotti, Pistelli, Lotti, Baretta, Gentiloni, Renzi, Rutelli, Sensi, Da Empoli, Anzaldi, Giacomelli, Bobba, Bocci, Franceschini, Giachetti

 

Perché Lapo Pistelli, possibile prossimo ministro degli Esteri per il quale Renzi ha lavorato alla fine degli anni Novanta come portaborse, sempre da lì viene, dal suo vecchio partito, ed è stato sempre lui a crescerlo e a formarlo politicamente parlando. Perché Antonello Giacomelli (sottosegretario allo Sviluppo economico, ex Margherita), Pier Paolo Baretta (sottosegretario all’Economia, ex Margherita), Giampiero Bocci (sottosegretario all’Interni, ex Margherita), Luigi Bobba (sottosegretario al Lavoro, ex Margherita), Lorenzo Guerini (vicesegretario del Pd, ex Margherita), Graziano Delrio (sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ex Margherita), Sandro Gozi (sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ex Margherita, e a Palazzo Chigi non c’è nessuno praticamente che non venga dalla Margherita), hanno una storia parallela, non di diretto contatto con lui, ma sempre da quel partito vengono e sempre nel suo partito si sono formati e – anche se oggi si trovano quasi tutti sotto il controllo politico di Dario Franceschini, ex Margherita, capo della corrente più margheritina del Pd, area Dem – sempre con lui sono in qualche modo cresciuti. Così come con lui – ma potremmo andare avanti per ore – è cresciuto uno dei principali consiglieri politici di Renzi, quel Giuliano Da Empoli, ex assessore alla Cultura dell’ex sindaco di Firenze, che oggi lavora a Palazzo Chigi come consigliere del principe e che venne scoperto sempre da lui quando lo scelse come consigliere del suo ministero (che allora era quello dei Beni culturali).

 

Lui, naturalmente, lo avrete intuito, è Francesco Rutelli. Ex capo della Margherita, ex sindaco di Roma, ex vicepremier del governo Prodi, ex ministro dei Beni culturali, oggi orgoglioso e abbronzatissimo rottamato che ha trovato la sua via di Damasco in una vita momentaneamente lontana dalla politica. Rutelli ha visto crescere, e ha fatto crescere, molti dei ragazzi che da Palazzo Chigi muovono le leve del governo. E oggi, conversando con il cronista, a due passi da Palazzo Chigi, alla vecchia caffetteria di piazza di Pietra, di fronte a una granita al caffè e un succo di frutta all’arancia, è qui che ricorda quando si spese per far eleggere Renzi alla provincia di Firenze – e quante volte Rutelli chiedeva al suo amico Michele Anzaldi di valorizzare questo ragazzo; e quante volte Rutelli lo ha portato con sé in giro per il mondo; e quante volte Rutelli ha organizzato cene per raccogliere sostegno per questo giovane e promettente ragazzo fiorentino. E’ qui che ricorda quando da Firenze gli parlavano così bene de “Il Luca”, nel senso di Lotti. Quando da sindaco lavorava con Sensi (era il suo portavoce, insieme con Michele Anzaldi, oggi deputato del Pd, renzianissimo anche lui), con Roberto Giachetti (tra il 1993 e il 2001 capo della segreteria e poi capo di gabinetto di Rutelli, oggi vicepresidente della Camera, renziano da paura), con Paolo Gentiloni (anche lui, in passato, portavoce di Rutelli, oggi deputato, e a volte più renziano dello stesso Renzi) e con Erasmo De Angelis (oggi a Palazzo Chigi nello staff di Renzi, ieri ai Beni culturali nello staff di Rutelli).

 

[**Video_box_2**]Loro i pulcini, lui la gallina. Rutelli sorride. Gioca con i corsi e con i ricorsi della storia. Ragiona sul percorso e sul futuro di tutti questi ragazzi effettivamente cresciuti nella sua Margherita (che Rutelli sciolse il 23 aprile 2007 per fondare insieme con Piero Fassino, all’epoca segretario dei Ds, il futuro Partito democratico). Rutelli – camicia bianca, zainetto in spalla, jeans scolorito, ciuffetto impeccabile – sorride quando il cronista fa notare che il governo Leopolda somiglia più al governo Margherita che al governo Schröder – ed effettivamente, a pensarci bene, trovare qualcuno non della Margherita nel cerchio ristretto del renzismo non è impresa proprio facile facile. Ricorda con lo sguardo orgoglioso e un filo nostalgico quando nel 2008 si portò Renzi a Washington in un viaggio istituzionale per presentargli Hillary Clinton – “This guy will do street”, gli avrà detto probabilmente Rutelli, il cui insegnante di inglese a occhio e croce dovrebbe essere lo stesso che si ritrova oggi mister Renzi. Precisa, Rutelli, facendosi più serio, che però i ragazzi al governo non hanno nulla a che fare con lui, oggi: ognuno ha preso la sua strada, lui al massimo ha fatto la chioccia, e poi, insiste l’ex sindaco di Roma, la sua scuola di formazione è molto trasversale, “e guarda, oh, che anche Marcello Fiori (che oggi guida l’ottimo esercito di Forza Silvio, ndr) è stato il mio capo di gabinetto quando ero sindaco”.

 

La gallina Rutelli sta al gioco del governo dei pulcini e una volta messi da parte i ricordi l’ex vicepremier del governo Prodi ragiona anche sull’oggi e sul domani; e pensando a “Matteo” riflette con sincerità e distacco sui suoi pregi e i suoi difetti. “Però, non esageriamo. In fondo, che ho fatto? Ho solo detto ‘crescete e moltiplicatevi’, e loro sono cresciuti e si sono moltiplicati alla grande. E’ vero che c’è molta Margherita in questo governo ed è vero che da un certo punto di vista non poteva che andare così, non poteva che essere una generazione non cresciuta con il vecchio stampo comunista a riscrivere le coordinate della nuova sinistra. Ma quando penso al governo Renzi, più che alla covata rutelliana, via, penso principalmente a due cose molto più importanti. Al punto di forza e al punto di debolezza di Matteo”. Rutelli mescola il ghiaccio nel succo e improvvisamente si fa ancora più serio.

 

“Se dovessi scattare delle foto al governo sarebbero due le immagini che rimarrebbero impresse nel rullino. La prima immagine, di cui bisogna essere orgogliosi, è quella della svolta: Renzi ha restituito alla politica il potere dell’immaginario e ha avuto il coraggio di rompere l’immobilismo delle élite, e questo è il suo principale merito politico. E’ stato fenomenale, nessuno prima di lui c’era riuscito, e non riconoscerlo sarebbe sciocco”. Però… “La seconda immagine, che invece mi preoccupa, è quella della tribuna, dove Matteo sembra aver messo buona parte degli elettori e dei cittadini italiani”. Tribuna? “Sì. La mia impressione è che il difetto principale di Renzi è quello di aver trasformato la politica del governo in una partita di calcio dove metà dello stadio applaude gioioso, urlando daje Matteo, e l’altra metà dello stadio osserva invece Matteo con lo sguardo scettico di chi pensa che anche questa volta le cose non andranno bene.

 

Attenzione: non si tratta di sondaggi o di consenso elettorale ma si tratta di un metodo di lavoro che non mi convince fino in fondo. Finora Renzi non è stato in grado di creare un coinvolgimento ampio nella sua azione di governo e bisogna stare molto attenti nell’evitare che la politica dell’uomo solo al comando si trasformi nella politica dell’uomo solitario al comando. Voglio dire: Renzi ha tutte le ragioni del mondo nel voler personalizzare la sua visione della politica ma anche la gestione più ultrapersonale del governo ha bisogno di un ampio coinvolgimento di forze politiche. E qui non parlo di partiti o di correnti. Parlo di persone in carne e ossa coinvolte dal presidente del Consiglio. Matteo ha scelto ragazzi competenti per portare avanti le sue idee, non ci piove, ma quello che gli manca, secondo me, è un esercito di persone pronte a trasformarsi nei suoi Beneduce. Ci vorrebbero, per capirci, cento Giuliano Amato di trent’anni per riuscire a sostenere l’impegno del governo Renzi e per tenere insieme le promesse fatte da questo esecutivo.

 

[**Video_box_2**]Ecco: se c’è un limite nel governo Renzi, che ha grandi meriti, primo tra tutti quello di aver arginato il populismo di Grillo, elemento non proprio secondario, diciamo, quel limite è nella sua scarsa capacità di coinvolgimento dell’individuo, e nell’aver trasformato gli italiani in un popolo di spettatori, che di fronte alle parole di buon senso del premier, alla sua velocità, alle riforme incardinate, il massimo che può fare è dire: ok, speriamo che questo jaa fa’”, ammicca Rutelli ondeggiando il faccione. “Io – continua – sono tra chi è convinto che Renzi ce la possa fare ma sono anche tra quelli che essendo distanti dalla politica riesce forse a osservare con più distacco quello che succede nel Palazzo. Non sono d’accordo con chi sostiene che Renzi debba imporre delle misure impopolari, perché oggi il suo compito è, pur in un altro contesto, non troppo diverso da quello che Papa Francesco ha nel mondo della chiesa: questo è il momento di unire, non è il momento di dividere, è il momento di ridare forza alle istituzioni, di farle diventare nuovamente popolari, e le verità naturalmente vanno dette ma non è il momento per dirle con lo stile di Hannibal Lecter”, dice Rutelli citando una famosa e cruda scena del “Silenzio degli innocenti” (“Perdonami, vorrei che potessimo parlare più a lungo, ma sto per avere un vecchio amico per cena”).

 

“La fase è complicata, ok, il paese è da tempo che perde ogni anno il due per cento della sua produttività. Il debito pubblico è spaventoso. L’Italia è sempre più schiacciata tra uno strapotere dell’Europa e uno strapotere delle regioni. Gli sprechi non si contano. La sanità – che poi è questo il vero problema – nessuno ha il coraggio di toccarla. Ma da un certo punto di vista bisogna riconoscere che non ci sono grandi alibi, e che tutto dipende dal governo. Perché? Semplice. I nemici non ci sono; gli avversari, sia quelli dentro il partito sia quelli esterni al partito, sono ridotti in una condizione di impotenza, e il merito ovviamente è di Renzi; i gufi, a voler essere sinceri, esistono ma non rappresentano questa minaccia così clamorosa; e se proprio dobbiamo dire la verità diciamo che il futuro del governo Renzi dipende solo da una persona: proprio Matteo Renzi.

 

L’Italia, si sa, è un paese di grandi scommettitori e molti scommettitori oggi sono attratti dalla capacità che ha Renzi di giocare partite quasi impossibili e in molti osservano il governo con lo stesso spirito con cui si entra in tabacchieria per comprare un gratta e vinci – aho’, che me frega, io ce provo a svorta’. Provare a svortare è una speranza legittima ma per governare il paese e far fruttare il consenso – dice Rutelli con un altro sorriso e con lo sguardo paterno di chi questi ragazzi li ha visti crescere, e dunque ne conosce i pregi, i limiti e le potenzialità – secondo me bisogna provare una cosa più complicata: coinvolgere nuove forze, nuova classe dirigente, far scendere gli spettatori dalle tribune e provare a metterli in campo. I tempi stringono purtroppo, la crisi è più grave di quello che si dice, le cose non vanno bene come vorremmo. Ma sono convinto che questo ragionamento e questa impostazione di governo prima o poi Matteo li capirà. Diciamo che ci scommetto, che sono tra quelli che dicono che l’Italia con Renzi potrebbe pure svorta’”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.