Perché il Sì scozzese sta rimontando veloce come un salmone

Richard Newbury

Alex Salmond, leader dello Scottish Nationalist Party e primo ministro del Parlamento Scozzese, si sta rivelando difficile da prendere tanto quanto un vero salmone scozzese.

Alex Salmond, leader dello Scottish Nationalist Party e primo ministro del Parlamento Scozzese, si sta rivelando difficile da prendere tanto quanto un vero salmone scozzese. Dopo anni nei quali l’equilibrio fra il Sì e il No all’indipendenza era rimasto invariato, al 42 per cento contro il 58 per cento rispettivamente, ora il divario è attorno al 2 per cento e viaggia sul filo di lana, tanto che risulta ormai troppo difficile prevedere l’esito del voto. Sembrava che la campagna “Better Together” avesse già la vittoria in tasca. Che cosa è successo? 

 

Come membro del Parlamento di Westminster per i Labour, Salmon avrebbe potuto facilmente ottenere un ministero di peso se nel 1997 Tony Blair, nato a Edimburgo, non avesse avuto una maggioranza talmente ampia da non ritenere necessario premiare tutti i suoi parlamentari di talento. Gordon Brown, Cancelliere dello Scacchiere di Blair, e il suo segretario agli Affari esteri Robin Cook erano anche loro parlamentari scozzesi, il che da un lato illustra la fuga dei talenti scozzesi verso Londra, dall’altro spiega la compiacenza del Labour, a livello nazionale, che da tempo considera la Scozia e i suoi 5 milioni di abitanti un suo feudo teoricamente solido. 

 

Alex Salmond, nel momento in cui le sue ambizioni a Westminster furono bloccate, spostò le sue brillanti capacità di fare campagne elettorali nello Scottish Nationalist Party, trasformando questo vecchio partito monotematico nel “vero” Scottish Labour Party e, per la sorpresa di tutti, ha vinto le ultime elezioni, formando il governo in quello stesso Parlamento scozzese che era nato nel 2000 come risultato del Devolution Act voluto dal governo Blair. Come primo ministro, Salmond ha fatto votare al Parlamento scozzese un referendum per l’Indipendenza da tenersi nel 2014, quando sperava che il governo conservatore-LibDem a Westminster sarebbe stato al massimo dell’impopolarità (i conservatori hanno un solo seggio in Scozia), dati gli invevitabili tagli economici operati. Ha anche dato il diritto di voto ai sedicenni e ha escluso dal voto gli 800 mila scozzesi che hanno lavorato in Inghilterra (per esempio, Alex Ferguson del Manchester United), mentre allo stesso tempo ha ammesso al voto i 500 mila immigrati polacchi arrivati di recente. 

 

[**Video_box_2**]David Cameron è di origini inglesi, e ha deciso di non creare un problema costituzionale sulla delicata questione – se cioè un Parlamento scozzese abbia il potere di indire un referendum soltanto scozzese – mentre in generale a Westminster pensavano che il No avrebbe vinto e che la questione dell’indipendenza sarebbe stata sistemata, per autoconsunzione, una volta per tutte. Con un seggio soltanto in Scozia, i conservatori non volevano certo regalare a Salmond l’opportunità di dare una mazzata anti-Tory e diriaprire una lotta di classe di sapore ancora anti-thatcheriano. Del resto l’elettorato inglese aveva motivi di preoccupazione più pressanti che il futuro di cinque milioni di scozzesi. Londra, da sola, ha una popolazione più grande della Scozia, del Galles e dell’Irlanda del nord messe assieme. E d’altra parte, se Londra dichiarasse l’indipendenza le conseguenze sarebbero, quelle sì, certamente fatali per il Regno Unito.

 

Cos’è cambiato, dunque, nelle ultime settimane, in cui soltanto l’elettorato conservatore della Scozia ha resistito al fascino di Alex Salmond con un irremovibile 93 per cento ancora intenzionato a votare No all’indipendenza? Beh, c’è che il Labour guida la campagna del No con l’ex Cancelliere di Gordon Brown, Alistair Darling, uno scaltro ma scialbo avvocato scozzese che ha salvato la sterlina nel 2008-2010, e guida la fazione del No al “Better Together”. E improvvisamente gli elettori del Labour, che propendono per il Sì sono al 35 per cento, contro il 18 per cento di quattro settimane fa. Gli elettori sotto i quarant’anni orientati al Sì sono al 60 per cento, mentre erano al 39 un mese fa. I membri della working class sono passati dal 33 al 47 per cento.

 

Con questi successi, Alex Salmond ha raggiunto tre obiettivi. Ha neutralizzato il fattore della paura. Fino a un mese fa quasi tutti gli scozzesi contavano i penny e giudicavano l’indipendenza troppo rischiosa, considerando l’incertezza riguardo alla valuta scozzese e le prospettive per il mercato del lavoro e gli investimenti nell’industria. Alla fine di giugno soltanto il 27 per cento degli scozzesi pensava che la Scozia sarebbe diventata più ricca se avesse lasciato il Regno Unito. Ora il 40 per cento pensa che sarebbe più prospera, mentre la fetta di chi pensa il contrario si è ridotta dal 49 al 42 per cento. In secondo luogo, Salmond ha giocato con successo la carta anti-inglese (forse anche razzista?) contro gli odiati Sassenachs (sassoni in Scozia). Circa la metà degli elettori scozzesi ritiene che un voto per il No lascerebbe una Scozia tendenzialmente di sinistra alla mercé delle politiche di Westminster che non apprezzano, anche se tutte le politiche scozzesi su Istruzione, Sanità e Società sono già decise e finanziate dal Parlamento di Edimburgo e amministrate da ministeri e ministri scozzesi. Paradossalmente, il tema della sottomissione a Westminster è il maggior fattore negativo che penalizza il voto No. Spaventa gli elettori scozzesi molto più di ogni pericolo che potrebbe arrivare dall’indipendenza.

 

La terza ragione per la crescita improvvisa del sostegno al Sì è che il team di Salmond, con la sua organizzazione elettorale nazionale, è stato molto più efficiente del team per il No che ha sempre avuto un’aria paternalistica di avvertimento contro i rischi che Salmond, con la sua noncuranza “cheeky chappie”, di uno che si sente molto cool e in grado di convincerti di qualsiasi cosa, ignora in nome dei miti nazionalisti. L’approccio negativo della campagna del No ha alienato le simpatie di molti – tantissimi pensano che la campagna sia stata troppo negativa. Salmond offre un’idea di futuro ottimista che rafforza il voto dei giovani dai 16 anni,  insieme a quello del Labour e dei lavoratori, che spera in politiche più progressite di quelle votate a Westminster. Alcuni fra i più saggi giudicano questa ipotesi credibile quanto le favole scozzesi o il Machbet.

 

Ci sono fattori che però possono favorire il fronte del No. Si pensa che l’affluenza sarà alta, ma si sa anche che di solito gli over 60 sono i più assidui, e loro sono per il 62 per cento a favore del No. In secondo luogo, il fattore paura, in vista di un Sì, può ancora giocare un ruolo rilevante. In terzo luogo, nel referendum del Quebec del 1995, quando i votanti guardarono nell’abisso, cambiarono dal 53-47 per cento nell’ultimo sondaggio al 50,6-49,4 per cento che poi si realizzò nelle urne.

 

Che impatto avrà questo referendum sul resto del Regno Unito? Un No sarà buono per i Tory. Tony Blair diceva che l’Inghilterra è un paese conservatore che qualche volta vota conservatore. Se vince il Sì, le speranze di Ed Miliband di diventare premier nel 2015 si infrangeranno. Se il No vince, il due per cento di vantaggio di Miliband porterebbe il Labour a 316 seggi, i Tory 280, i Lib-Dem 27 (gli altri 27): dieci seggi in meno di quelli che servono per la maggioranza. Se gli scozzesi votano sì, allora sarebbe: Tory 278, Labour 274, Lib-Dem 18 (gli altri 21).

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