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La Festa dell'Unità al tempo del godimento della merce (era ora)

Michele Masneri

La base è contenta. La base ha fame di merci e godimenti. Questa prima festa dell’Unità renziana è la prima prettamente marxista, o marxiana, della storia. L’effetto “disintermediatore” libera tutti. Ministre concupite dal popolo, auto, euro-ospiti stile House of Cards.

Bologna. La base è contenta. La base ha fame di merci e godimenti. Questa prima festa dell’Unità renziana è la prima prettamente marxista, o marxiana, della storia: in secondo piano la sovrastruttura (l’ideologia, la politica anche un po’), vien fuori soprattutto la struttura (cioè l’economia, la merce). Secondo Alberto Moravia “i festival dell’Unità combinano in sé tre idee, quella della festa cattolica, quella del Soviet e quella del mercato”. Quest’anno a Bologna di cattolicesimo poco (a parte Franco Marini che si fa dei selfie), Soviet così così, soprattutto tanto mercato e tante merci. Tante macchine, soprattutto: al parco nord, tra i militanti, stand ed esposizioni di Hyundai, Seat, Kia, Fiat (una Panda 4x4 argento a chilometri zero ha il cartello: VENDUTA!), furgoncini Volkswagen, anche a trazione integrale, per imprese agricole; poi, non si sa se con preveggenza da cerimoniale astuto, un salone “AutoFrance”, proprio accanto al tendone della Direzione dove arriva poi la delegazione francese (e tutti: che macchina avrà, il primo ministro Valls? Italiana o francese?; poi scende da una Peugeot targata corpo consolare). Lo stand Lamborghini, proprio di fronte al palco dove parlerà il premier, è frequentatissimo; bandiere del Pd sventolano davanti alle carrozzerie supermaggiorate di una Huracan giustamente rossa fiammante, 601 cavalli, e i militanti la fotografano tanto, anche se è tedesca, del gruppo Audi.

 

Ma non ci sono solo le macchine: anche uno stand Rotowash, come in pubblicità anni Ottanta su reti regionali; una Onoranze funebri Borghi; un marmista; l’Unipol; uno stand Camini Palazzetti, “un cuore verde che ti scalda l’anima”, non male come claim (con una milf in tailleur rosso fuoco, forse la signora Palazzetti in persona, che accende camini dimostrativi con una diavolina accendifuoco, nonostante i trentasei gradi), proprio di fronte al ristorante Bertoldo dove va in scena l’unica contestazione seria di questa Festa dell’Unità. Quando è l’ora di pranzo, la sicurezza imponente blocca gli accessi al tendone sotto cui si sfamerà l’internazionale belloccia di Renzi, con Achim Post, Pedro Sanchez, Manuel Valls e Diederik Samsom; e lì subito il responsabile del ristorante, forse il signor Bertoldo in persona, non ci sta: “Mo’ come: mi avevate detto che chiudevate solo il lato destro, io come faccio?”. E poi ancora, rivolto al suo pubblico affamato, in coda, disintermediando anche lui come il premier: “Un minuto e vi facciamo entrare tutti!”. Uno della sicurezza dice: “Qua non entra nessuno”. Bertoldo si incazza: “Mai visto un lavoro del genere”, “e pensare che qui son benvenuti tutti”, ma poi parla con chi di dovere, e rassicura: “Io non vi lascio micca senza mangiare”. E alla fine marxianamente la struttura ha la meglio sulla sovrastruttura. E si entra nella tensostruttura (alle spalle, alcuni compagni: “Mo’ non son mica normali, questi qua”; e un altro: “Mo’ neanche se c’era Bush”).

 

[**Video_box_2**]Quindi dentro, nel Bilderberg del Tortellino, con tavolo delle autorità con Matteo e poi tavoli degli sherpa (ma Filippo Sensi, portavoce e force tranquille del governo, viene scansato da una compagna volontaria: “Mo’ insomma: devo fare lo sgombero, come ve lo devo dire!”). La polenta è finita in tutte le sue versioni – scondita-con ragù-con salsiccia-con somaro-con cinghiale; pochi coraggiosi osano il tortellino in brodo, si punta piuttosto sulle larghe intese del tris di minestre (tortelloni Bertoldo alla ricotta, gnocchi verdi, gramigna alla amatriciana, otto euro e cinquanta); si compila “la comanda” alle casse e poi arrivano altri compagni volontari a portare i piatti. Gli applausi più forti poi per “Matteo” sul palco, nel comizio conclusivo, saranno proprio per i “diecimila volontari” che rendono attuabile il tortello nel paese reale; e per Bersani; e per le ricette economiche. Il punto centrale del discorso del disintermediatore è proprio sull’economia: non solo “il merito è di sinistra”, che pure fa un po’ impressione, qui, ma anche un entusiasmo tutto sul lato dell’offerta, sulle aziende, sulla competizione. La base è felice, e applaude, e all’improvviso si capisce che forse un popolo notoriamente godurioso e produttivo e intransigente su parmigiano, sulla piastrella, sul lambrusco e sul liscio, non vedeva l’ora di uscire da un certo sortilegio e di avere un compagno premier che ti porta i bonazzi europei, ma soprattutto che non ti fa “due maroni” col centralismo democratico, parlando piuttosto della fabbrichetta e della rubinetteria.

 

Sarà il nuovo riflusso? O forse è solo il luogo: “Alla componente politica si affianca quella ludica e ricreativa, coi ristoranti, la lotteria, la balera, gli stand commerciali” scrive Anna Tonelli in “Falce e tortello. Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità” (Laterza), perché già, come sosteneva Togliatti nelle “Lezioni sul fascismo”, “bisogna comprendere il divertimento tra i bisogni elementari delle masse”. Qui, la componente ludica non è solo alimentare, ma proprio carnale. Le ministre son continuamente concupite. La Mogherini si farà un centinaio di selfie con militanti giovani e anziani, mentre si aggira per gli stand. La Moghe viene anche stalkerata: “Io me la farei” sussurrano una coppia di compagni emiliani rispettosi; “bea mona!” le dice invece apertamente un compagno molto disintermediatore della Serenissima, un po’ alticcio. Lei impassibile: “Guarda che io ho un nonno, un papà e un marito veneti, capisco sai”, lo gela, ma sempre col sorriso sulle labbra (e compagne perfide, colpite da un po’ di rigidità facciale: “Ma l’avrà fatto il botox? Mo’ cosa dici, e quando lo trova il tempo con tutti gli impegni che cià”). La Pinotti viene concupita pure ma con più rispetto, piace molto il suo piglio e il suo taglio di capelli alla Robin Wright di “House of Cards” (lei fotografa tanto Matteo, col suo iPhone, invece).

 

La Moghe sfila fuori dal ristorante col bonazzo spagnolo Pedro Sanchez, ma come coppia è troppo facile – lui ha faccia e fisico e mascella formidabili, e per sovrappiù o per tic nervoso fa pure l’occhiolino a tutte, ma proprio tutte le signore. Diederik Samson, capo dei laburisti olandesi, uguale al politico tossico di “House of Cards” Peter Russo, fa anche un po’ lo stesso ruolo qui: non se lo fila nessuno, non lo riconosce nessuno; alcuni militanti si selfano però lo stesso; ma i più esperti tra i cronisti sanno che il tema vero è la sua presunta storia con l’assistente Sarah, che però dai più sessisti viene trovata deludente rispetto alla assistente della serie tv. Lui invece piace, del genere pelato con personalità: nel concorsone di bellezza maschile moderato dalla Moghe lo danno al secondo posto, dopo Pedro (vabbé, fuori concorso), prima di Valls e Matteo, mentre il segretario tedesco del Pse Achim Post sembra un po’ Paolo Gentiloni o un vecchio zio saggio. I compagni uomini intanto si aggirano, non solo a caccia di ministre: un bolognese improvvisamente si mette a cantare la Marsigliese davanti a Valls; viene subito zittito dalle guardie minacciose del primo ministro. “Mo’ si faceva così, per scherzare”, si giustifica, e torna sul lato dell’impresa: approfitta dell’italiano fluente del primo ministro, chiedendo dettagliatamente tutela per delle produzioni locali, “mo’ per la filiera, tutta intera”, e Valls lo ascolta attentamente per una decina di secondi, poi se ne va, sulla sua auto francese.

 

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