Un posto di blocco dei terroristi di al Shabaab in Somalia (foto AP)

Perché colpire duro in Somalia

Lunedì le forze speciali americane hanno condotto un attacco aereo in Somalia, con l’obiettivo di eliminare il leader del gruppo terroristico al Shabaab, Ahmed Godane. Il governo non ha ancora specificato l’esito della missione, ma Shabaab ha confermato il “martirio” del suo capo.

New York. Lunedì le forze speciali americane hanno condotto un attacco aereo in Somalia, con l’obiettivo di eliminare il leader del gruppo terroristico al Shabaab, Ahmed Godane. Il governo non ha ancora specificato l’esito della missione, ma Shabaab ha confermato il “martirio” del suo capo. Una ricostruzione dell’accaduto restituisce l’immagine di un raid più complesso delle solite operazioni “covert” con i droni che Barack Obama ha ordinato a centinaia in questi anni. Una squadriglia di droni e caccia tradizionali con missili Hellfire e munizioni a guida laser ha distrutto un campo di addestramento a sud di Mogadiscio. Secondo fonti somale, nel campo c’erano, oltre a Godane, anche diversi esponenti dello stato maggiore di al Shabaab, incluso il governatore ombra della regione del Basso Shabelle, Muhammad Abu Abdallah, e alcuni comandanti militari sudanesi e yemeniti. La soffiata sulla posizione del campo potrebbe essere arrivata da una talpa interna, cosa che si deduce dal fatto che il servizio d’intelligence di Shabaab ha arrestato quindici affiliati con l’accusa di spionaggio.

 

Non è stato un attacco mirato su un singolo obiettivo, ma un assalto dal cielo contro una struttura militare rilevante per le operazioni del network somalo affiliato ad al Qaida. E’ la conseguenza del passaggio delle operazioni dal cielo dalle mani della Cia a quelle del Pentagono, cambio strategico che il presidente ha voluto dopo anni di missioni clandestine telecomandate da Langley e formalmente mai riconosciute dal governo. Quando, all’inizio del 2013, John Brennan è stato nominato capo della Cia ha promesso di restaurare la vocazione originaria dell’agenzia, la raccolta d’informazioni, e di oscurare i tratti militari che sono stati il marchio di una stagione fatta più di bombardamenti dall’alto che di dati raccolti sul campo. Obama sentiva la pressione, nel mercato politico interno e fra gli alleati, di una politica di bombardamenti condotta in gran segreto, senza chiedere permessi né rendere conto al pubblico, e ha disposto un passaggio di consegne che ha aggiunto non pochi attriti a quelli già esistenti fra la gerarchia militare e la comunità d’intelligence. Non si sa se prima di agire Washington abbia avvertito le impalpabili autorità somale, ma di certo nel panorama della guerra al terrore frammentata la Somalia è diventata il teatro in cui l’America sta testando l’uso della forza amministrata dal Pentagono. Lo sta facendo combinando l’assertività militare con l’accortezza di non sconfinare dal canone della politica estera di Obama, quello che l’analista Peter Beinart ha ribattezzato il “feroce minimalismo”: il presidente rifugge con metodo dottrine e strategie per sconfiggere un nemico complesso, ma è spietato quando si tratta di far saltare in aria minacce specifiche e circoscritte. E non lesina decisioni rischiose quando la posta in gioco è alta.

 

[**Video_box_2**]Ricordare il raid dei Navy Seal contro Osama bin Laden è fin troppo facile. L’operazione fallita degli uomini della Delta Force in Siria per recuperare il giornalista James Foley da un’ex raffineria di petrolio brulicante di miliziani dello Stato islamico ricorda che non tutti i raid finiscono in gloria. Nel “failed state” somalo l’America ha progressivamente aumentato il numero e il calibro delle operazioni antiterrorismo. A gennaio un bombardamento americano ha ucciso Sahal Iskudhuq, uno dei membri di spicco del servizio d’intelligence di Shabaab. Nell’ottobre dello scorso anno i Navy Seals si sono infiltrati nella roccaforte di Baraawe per dare la caccia a Abdulkadir Mohamed Abdulkadir, uomo di raccordo fra al Shabaab e la leadership di al Qaida in Pakistan. Abdulkadir ha avuto un ruolo nella preparazione degli attentati del 1998 alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, e stava lavorando ad altri attacchi a Nairobi. Un anno prima dell’assedio al centro commerciale di Westgate di Nairobi, l’intelligence americana lo citava fra gli obiettivi del network. L’ultimo attacco con i droni risale allo scorso anno: i Predator hanno ucciso Ibrahim Ali Abdi, detto Anta Anta, esperto di esplosivi e coordinatore delle operazioni suicide.

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