Bryan Cranston ha interpretato il ruolo del presidente Johnson in “All the Way”, a Broadway, che con un milione e mezzo di dollari incassati è stato il titolo di maggior successo dell’intero cartellon

Leader dell'estate

Antonio Funiciello

Teatro. Libri. Serie tv. Obama. Hillary. Ferguson. Perché tutto ci parla di Lyndon Baines Johnson e del suo “trasformativo” modello di leadership.

Quello che non sapremo mai di Lyndon Baines Johnson, nato poco più di cent’anni fa a Stonewall, piccolo villaggio di poche anime sperduto in mezzo al Texas, è cosa avrebbe detto della serie televisiva che Hbo e Steven Spielberg hanno in programma di produrre sul suo conto per la prossima stagione. Già quest’anno Johnson avrebbe potuto fare un salto a Broadway per andare a vedere “All The Way”, l’opera teatrale a lui dedicata, di cui Hbo e Spielberg hanno acquistato i diritti. “All The Way” è stato il titolo di maggior successo dell’intero cartellone, un milione e mezzo di dollari incassati (“All the way with LBJ” era il grido di battaglia di Johnson alle presidenziali del ’64). E ha fatto incetta di Tony Award, gli Oscar del teatro. Merito della scrittura del Pulitzer Robert Schenkkan. Merito di Bryan Cranston che, dopo aver emozionato l’America interpretando il protagonista di quella formidabile epica quotidiana che è stata la serie tv “Breaking Bad”, ha vestito gli abiti presidenziali a Broadway e porterà Johnson sul piccolo schermo il prossimo anno. E’ un curioso gioco del destino che un politico così poco amato dal jet set culturale sia lentamente tornato alla ribalta popolare proprio grazie all’interesse accademico montato nei suoi confronti da qualche tempo a questa parte. E’ difatti dalla biografia di Robert Caro in cinque volumi, “The Years of Lyndon Johnson”, che Schenkkan ha tratto la sceneggiatura della sua pièce. Una biografia che ha collezionato riconoscimenti, dal Pulitzer al National Book Award, rappresentando il punto di arrivo di un approfondimento sulla figura di LBJ che dura ormai da più di un ventennio. La più classica e amara delle glorie postume. Già perché a metà anni 60, prima dell’escalation vietnamita, quando Johnson fa sue due copertine di Time come uomo dell’anno, il presidente texano è pressoché detestato da quel mondo intellettuale statunitense dominato dalla spocchia liberal del New England. La sua forza sta tutta nell’enorme popolarità che gli accordano i ceti bassi e medi. Quel pezzo d’America che non si lascia orientare dai grandi giornali del nord est e ama il suo modo diretto di parlare, la sua faccia segnata dalle fatiche erculee che ha dovuto sopportare per arrivare dov’è arrivato. Con una intellighenzia innamorata di una famiglia di miliardari irlandesi di Boston, che vive nella nostalgia di un giovane presidente assassinato e medita rivalsa, l’America più vera trova riparo nelle rughe di un sessantenne partorito dalla miseria. E che dall’incubo della miseria promette di guarire per sempre i sogni degli americani.

 

Quei sogni di riscatto sociale e di crescita individuale, che i padri costituenti ebbero così buona penna nel rinominare “diritto alla ricerca della felicità”, Lyndon Johnson li conosce assai bene. Sono i suoi sogni. I sogni di uno che ha sgobbato per tutta la vita. Dal primo impiego come insegnante nelle ultime tre classi della scuola primaria di Cotulla, contea di La Salle a due passi dal confine messicano, a quando andò per la prima volta a Washington, come collaboratore del deputato Richard Kleberg, eletto nel quattordicesimo distretto del Texas.

 

A Cotulla, Johnson ci finisce nel terribile 1929, per mettere insieme un po’ di soldi e prendere la laurea all’Università statale di San Marcos. La piccola azienda agricola del padre ha fatto bancarotta e la sola maniera per continuare gli studi è pagarseli. A Cotulla il primo stipendio regolare di Lyndon, che ha fatto mille altri lavori in gioventù, è di cento dollari al mese. Da lì passa a insegnare debating alla Sam Houston, scuola superiore dell’omonima città. Si tratta di lezioni di retorica e oratoria che preparano gli studenti a dibattere fra loro, con una giuria predisposta a premiare i discussant più persuasivi. Neppure a dirlo, la classe del professor Johnson, al suo primo e unico anno di insegnamento, arriva alle finali di stato. Nel ’31 Johnson lascia la scuola (si è intanto laureato) e s’impiega a Washington come segretario del deputato Richard Kleberg. Anche come consulente politico scala tutti i gradini e diventa il più alto in grado tra i “sottufficiali” della Camera. In quel ramo del Congresso c’è, infatti, un piccolo parlamentino (the “Little Congress”), riconosciuto dall’istituzione, che raccoglie tutti i collaboratori dei deputati.

 

Occorrono poche settimane a Johnson per diventarne il presidente. In quegli anni Johnson conosce sua moglie Claudia Taylor, che sposa dopo solo dieci settimane di fidanzamento. Tutti chiamano Claudia “Lady Bird” (coccinella), nomignolo che le è rimasto appiccicato addosso da quando la sua tata ebbe l’estro di chiamarla così da piccola. A Johnson il nome Lady Bird piace, perché ricompone il suo acronimo LBJ nel nome da sposata della moglie. Quelle tre lettere diventeranno il marchio di famiglia. Le due figlie si chiameranno Lynda Bird e Luci Baines, e finanche il cane Little Beagle Johnson non farà eccezione.

 

Lady Bird presterà a Lyndon diecimila dollari per la campagna elettorale che nel ’37 lo porterà alla Camera dei Rappresentanti, decimo distretto di Austin, e avrà un ruolo cruciale per tutta la sua carriera e per le istituzioni nazionali. Pochi sanno, solo per fare un esempio, che l’odierno ufficio della first lady alla Casa Bianca e l’idea stessa di uno staff separato da quello del presidente sono state innovazioni apportate proprio da Lady Bird durante i suoi anni al 1600 di Pennsylvania Avenue.
I Johnson sono fatti così. Pianificano. Organizzano. Si pongono obiettivi che, una volta raggiunti, vengono degradati a premesse di obiettivi futuri. LBJ rimane alla Camera per dodici anni, dal ’37 al ’49. E’ un pupillo di Roosevelt, l’unico pupillo texano. Quando il vice di Roosevelt, il texano John Nance Garner (Cactus Jack, per gli amici), sfida il presidente che vuole ricandidarsi per il terzo mandato, Johnson rimane fedele a FDR. Una scelta difficile per un congressman texano così giovane, che frequenta Capitol Hill da appena tre anni. Il fatto è che Johnson è strenuamente convinto che la politica interventista di Roosevelt sia quella giusta per l’America: interventista sia in senso keynesiano sul versante interno economico-sociale; interventista sia per quanto riguarda la Seconda guerra mondiale, a cui Johnson prenderà ovviamente parte, lasciando Lady Bird incinta di Lynda. Gli anni di duro lavoro ad Austin e dintorni hanno messo Johnson in contatto con l’apartheid verso i neri e le altre minoranze, facendo maturare in lui una profonda coscienza antirazzista. L’esperienza nell’esercito, in cui combattono e muoiono fianco a fianco americani di tutte le razze, fa il resto. Johnson torna in patria convinto che la questione razziale sia il vero banco di prova per l’America del dopoguerra. Passato al Senato nel 1949, diventa prima capogruppo di minoranza, tra il ’53 e il ’55, quindi di maggioranza sotto la seconda presidenza Eisenhower. Il presidente repubblicano, profondo antirazzista, è intenzionato a far passare la prima legge sui diritti civili dai tempi della Ricostruzione. Ci riesce perché trova nel capogruppo democratico un alleato abilissimo. Certo, il Civil Rights Act del ’57 è timido ed elusivo: un’inezia in confronto alle leggi sui diritti delle minoranze che promulgherà Johnson da presidente. Eppure è una piccola crepa in quel muro d’indifferenza che per cento anni il Congresso aveva eretto contro le ingiustizie razziali diffuse in tutta l’America, non solo nel sud.

 

Il presidente Obama, commemorando Johnson ad Austin poche settimane fa, in occasione del cinquantenario della legge sui diritti civili del ’64, ha elogiato più volte la sapienza legislativa di LBJ. Johnson era uno, ha detto Obama, che “sapeva come far passare le leggi”. E’ stato forse, per Obama, il discorso più imbarazzante di sei anni di presidenza, visto che la celebrata abilità legislativa riconosciuta a Johnson è il vero tallone d’Achille della leadership di Obama. Ma per un Obama solitamente così parco nel riconoscere i meriti degli altri, ha colpito tutti che, nel discorso tenuto alla Johnson Library, egli sia stato così prodigo di buone parole per LBJ. Fino a riconoscere l’importanza che per lui e sua moglie hanno avuto i piani di integrazione scolastica voluti da Johnson.

 

Archie Brown, in “The Myth of the Strong Leader” uscito prima dell’estate, ha coniato per Johnson la definizione di “redefining leader”. Un leader, cioè, il cui operato di governo è di tale innovazione da produrre una radicale modificazione nei meccanismi di funzione della società del suo paese. Anche Joseph Nye ha scritto, qualche anno fa, cose molto simili su Johnson, raffigurandolo come il prototipo del leader trasformativo. Per Brown, LBJ è un “redefining leader” perché ha apportato cambiamenti così fondamentali e duraturi che la società e la politica americane non avrebbero potuto in alcun modo tornare indietro, anche se avessero voluto farlo. Il riferimento è chiaramente al Civil Rights Act firmato il 2 luglio del 1964, che dichiarava l’illegalità della segregazione razziale a scuola, a lavoro e in tutti i luoghi pubblici. E al Voting Rights Act del 1965, che spalancava definitivamente le porte della politica all’elettorato passivo e a quello attivo delle minoranze, in particolare della minoranza nera. Provvedimento che produsse un aumento vertiginoso dei neri al voto e una conseguente esplosione di eletti di colore. Civil e Voting furono le due leggi più importanti in tema di diritti individuali dai tempi dell’abolizione della schiavitù di Lincoln (e, con Lincoln, Johnson condivide un altro curioso primato: sono i due presidenti più alti della storia, 1,94 m!). Ma il programma di riforme sociali in cui Johnson si impegna nei primi anni della sua presidenza, la sua Grande Società, è molto più minuzioso e ambizioso. Dalla sanità alla scuola, dall’immigrazione alla sicurezza interna e al controllo delle armi, è Johnson a edificare quel particolarissimo welfare statunitense che libererà delle energie straordinarie, cruciali per diffondere prosperità e benessere in casa e rilanciare il way of life americano nel mondo. Così LBJ è diventato un oggetto obbligato di studio negli anni della “southernization” della politica americana, coincisa all’inizio degli anni 90 con l’arrivo di Bill Clinton alla Casa Bianca (un altro, Clinton, che orfano di padre e figlio di un’infermiera, ha sfruttato fino in fondo le opportunità dischiuse dalle leggi sociali di Johnson). Per qualunque studioso che volesse capire come e quanto l’America sia cambiata negli ultimi cinquant’anni, è diventato impossibile non cominciare dalla presidenza Johnson: dallo stile della sua leadership e dagli effetti misurabili e verificabili dei suoi provvedimenti di governo. Così in questi giorni, sull’Atlantic, Jonathan Darman scrive “what Hillary can learn from LBJ”, e Johnson diventa un paradigma di riferimento per le presidenziali del 2016. Così, ieri ch’era il suo compleanno e ricorreva il Lyndon Johnson Day, questa festa sembrava riguardare non più soltanto il suo stato d’origine, ma l’America intera.

 

Poi c’è stato il Vietnam, certo: la più irragionevole battaglia persa di una guerra (fredda) vinta. E, sul conflitto indocinese, le responsabilità di Johnson sono state vivisezionate quando ancora l’ennesimo infarto non se l’era portato via per sempre, in una fredda notte di gennaio del 1973. Il quinto volume della biografia di Robert Caro, atteso tra un paio d’anni, sarà interamente dedicato al Vietnam e a gli errori di Johnson. Ma la bibliografia sull’argomento è sterminata. Il presidente texano stesso, uscito di scena, aveva subito riconosciuto nella sua autobiografia “The Vantage Point: Prospectives on the Presidency” i limiti della sua politica estera. Ribadendo però la necessità di doverla pur combattere, quella maledetta guerra iniziata dal suo predecessore. Già, il suo predecessore: John Fitzgerald Kennedy. Gli anni 70 e 80 dell’oblio di LBJ sono proprio quelli dell’affermazione del mito di JFK. Mentre sceglie di dimenticare l’uomo che ha realizzato più di tutti dopo Roosevelt, l’America mitizza un presidente che nei tre anni alla Casa Bianca ha concretizzato poco o niente. Ma JFK e LBJ sono due facce di quella stessa medaglia che è l’America.

 

E’ Kennedy a scegliersi Johnson come suo vice alla convention di Los Angeles del 1960. Quando comunica la sua decisione allo staff, il fratello Bobby s’infuria, come pure gli intellettuali di riferimento Schlesinger e Sorensen. Sono tutti contrari. Ma JFK è l’unico ad avere fiuto politico e capisce che per lui, figlio di un miliardario irlandese di Boston e, per giunta, cattolico, il solo modo per prendere i voti del sud è camminare a braccetto con Johnson. Intuizione felicissima, perché guadagnerà alla causa kennedyana i grandi elettori di New Mexico, Texas, Louisiana e Alabama, che consentiranno ai democratici di riprendersi la Casa Bianca (altro che dibattito televisivo di Chicago!).

 

Quando Kennedy, messo a tacere il fratello, telefona a notte fonda a Johnson per proporgli il ticket, Lady Bird quasi minaccia di lasciarlo. Johnson non chiude occhio e il giorno dopo accetta. “Non sono abbastanza in gamba per fare il presidente: sono nato dalla parte sbagliata del paese”, aveva detto pochi anni prima in un’intervista a Time. Non ci credeva, in realtà. E non ci crede la mattina che si decide ad accettare l’offerta di Kennedy. Alla convention di Los Angeles è arrivato, da capogruppo al Senato, convinto di poter agguantare in qualche modo la nomination. Nessuno, d’altronde, in America avrebbe scommesso un soldo sulla possibilità che Johnson lasciasse la guida dei senatori democratici per niente di meno della nomination presidenziale. E’ invece LBJ spiazza tutti e accetta di fare il secondo. Al momento dell’annuncio ufficiale, però, Lynda, la figlia più grande di Johnson, non si trova. La sicurezza interna e quella di stato vanno in allarme, ma della figlia del candidato vicepresidente non c’è traccia. Dopo poche ore, nella sorpresa generale, Lynda si presenta all’Hotel dei genitori, che la ricoprono di rimproveri. “Dove sei stata?” le chiede urlando il padre. “A Disneyland con le mie amiche”, risponde lei, placida. “E ti pare che siamo venuti fino a Los Angeles per farci un giretto a Disneyland!”. “No, papà”, risponde lei. “Ma non eravamo neppure venuti fin qui per accettare la vicepresidenza”. Firmato: Lynda Bird Johnson. Ovvero, sempre, LBJ.