L'inviato del papa in Iraq, il cardinale Fernando Filoni (Foto AP)

Il martirio iracheno

La diplomazia vaticana cerca amici a Washington per debellare il Califfato

Matteo Matzuzzi

I patriarchi mediorientali si danno appuntamento in America, dove i vescovi non temono l’uso delle armi.

Roma. La diplomazia della Santa Sede guarda agli Stati Uniti. Sarà lì, a Washington, che nelle prossime settimane si terrà un incontro tra il cardinale prefetto per le Chiese orientali, Leonardo Sandri, e i patriarchi che vivono e operano nelle martoriate terre divenute campo aperto per le scorribande delle milizie integraliste del califfo al Baghdadi. A confermarlo, al Meeting di Rimini, è stato mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente vaticano alle Nazioni Unite di Ginevra. La scelta di Washington è dettata anche dalla volontà di “coinvolgere i vescovi americani per influenzare poi l’opinione pubblica”. Alle riunioni è prevista anche la partecipazione del cardinale Fernando Filoni, prefetto della congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli che per conto e a nome del Papa ha visitato i campi curdi dove hanno trovato rifugio le migliaia di cristiani e yazidi braccati dai jihadisti dello Stato islamico. Nelle scorse settimane, all’indomani dell’autorizzazione della Casa Bianca ai raid limitati in Iraq, il capo dell’episcopato statunitense, mons. Joseph Kurtz, aveva scritto una lettera a Barack Obama, in cui esprimeva gratitudine “per l’assistenza umanitaria e la protezione che la nostra nazione ha fornito a coloro che fuggono, spesso con solo i vestiti che avevano addosso e per il modo in cui gli Stati Uniti hanno lavorato a contatto con i funzionari iracheni per favorire la formazione di un governo inclusivo capace di rispettare i diritti umani e la libertà religiosa per tutti”.

 

Mons. Kurtz, però, andava oltre: “Bisogna fare di più. Papa Francesco ha esortato la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose”. Da qui, la richiesta del presidente della Conferenza episcopale americana a “rispondere a questa chiamata, di concerto con la comunità internazionale”. Anche perché, aggiungeva il presule, “sappiamo troppo bene che gli attacchi contro le minoranze religiose ed etniche sono attacchi contro l’intera società. La violenza può essere esercitata in primo luogo contro le minoranze, ma non finisce lì. I diritti di tutti gli iracheni sono a rischio”. Raccoglieva, mons. Kurtz, l’appello lanciato a metà agosto dal patriarca di Babilonia dei caldei, Louis Raphaël I Sako, che in una lettera aperta auspicava che “prima che prove dure e strazianti affliggano ulteriormente le famiglie irachene, gli Stati Uniti d’America – anche a causa del loro precedente coinvolgimento in Iraq –, l’Unione europea e la Lega dei paesi arabi hanno la responsabilità di agire rapidamente per una soluzione”. L’obiettivo dell’azione, precisava Sako, era chiaro: “Bonificare la piana di Ninive da tutti i combattenti jihadisti e aiutare le famiglie sfollate a fare ritorno nei loro antichi villaggi”.

 

“Il mondo corresponsabile del genocidio”

 

Avvertiva, il patriarca caldeo, che lo Stato islamico non si sarebbe “fermato a sradicare il cristianesimo dall’Iraq”, e che la passività dinanzi alla persecuzione avrebbe reso “il mondo intero corresponsabile di un lento genocidio”. Parole che avevano portato un gruppo di oltre cinquanta accademici americani a firmare un documento in sostegno delle tesi di Sako, invocando un intervento militare in Iraq: le altre opzioni, scrivevano, “non saranno in grado di proteggere le vittime del genocidio già iniziato” per mano dei miliziani del califfo. A sottoscrivere la dichiarazione, oltre al docente di Legge alla Notre Dame University, Gerard Bradley, spiccava il giurista Robert George, considerato uno dei più influenti intellettuali conservatori statunitensi: “E’ il pensatore di cui si parla di più nei circoli giuridici conservatori”, disse di lui Antonin Scalia, giudice associato della Corte suprema. Nel documento in cui si dà pieno sostegno alle richieste della chiesa caldea irachena, si osserva come sia “imperativo per gli Stati Uniti e la comunità internazionale agire subito e con decisione per fermare il genocidio dell’Isis e prevenire ulteriori persecuzioni nei confronti delle minoranze religiose”. E questo obiettivo “non può essere raggiunto se non attraverso l’uso della forza militare”.

 

Ieri intanto, a Bkerké, nella sede del patriarcato maronita retto dal cardinale Béchara Raï, s’è tenuta una riunione tra i patriarchi orientali e diversi ambasciatori stranieri. Secondo l’agenzia AsiaNews, è possibile che dall’incontro esca un documento in cui s’esortano sia i paesi occidentali sia quelli arabi a muovere passi concreti per tutelare le comunità cristiane e yazide da secoli insediate nel vicino e medio oriente.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.