Un kibbutz vicino al confine con la Striscia di Gaza (Foto Ap)

Il cessate il fuoco non dissolve i fantasmi della grande fuga da Israele

Giulio Meotti

Hamas dice: tregua. Ma intanto Gerusalemme ha evacuato la prima linea di kibbutzim a ridosso della Striscia.

Roma. Hamas ha annunciato ieri un cessate il fuoco durevole e unilaterale. Ma intanto Israele ha evacuato la sua “prima linea di difesa”. Così sono chiamati i venti kibbutzim e moshavim a ridosso della Striscia di Gaza. Da quando Israele ha portato via i coloni di Gush Katif, nel 2005, sono questi villaggi a fare da cuscinetto di sicurezza al resto dello stato ebraico. Negli ultimi giorni, i giorni in cui sono caduti in media più missili che nei cinquanta di guerra, il 70 per cento dei 30 mila israeliani che vivevano qui ha abbandonato le proprie case. Sono fuggiti in auto, “ricollocati” dallo stato, ospitati da parenti nel nord del paese. E’ un assaggio di cosa intendono i nemici di Israele quando parlano di “fine dello stato ebraico”.

 

Tra lunedì e martedì oltre 150 razzi e colpi di mortaio palestinesi sono stati sparati dalla Striscia di Gaza contro Israele. L’allarme è suonato a Tel Aviv, Ramat HaSharon, Herzliya, Ra’anana, il cuore dello stato ebraico. Hamas ha rivendicato il lancio di un missile iraniano M-75 intercettato sopra Tel Aviv. Durante l’allarme, un volo della El Al in arrivo da Rodi ha dovuto rinviare l’atterraggio all’aeroporto internazionale Ben-Gurion. Ieri un missile ha centrato anche un asilo nido di Ashdod.

 

Intanto, le città a sud del paese stanno diventando delle “ghost town”. Come Sderot, nota anche come “la città più bombardata al mondo”. “Ogni giorno arrivano persone traumatizzate in clinica”, dice al Foglio la dottoressa Adriana Katz, psichiatra e direttrice dello Sderot Mental Health Center. “Non c’è nessuno per strada. La gente ha paura di uscire, e se lo fa sempre in auto. I negozi sono tutti vuoti. Per ora anche le scuole rimarranno chiuse”.

 

Lì, negli avamposti agricoli vicino a Gaza, professori universitari, medici, ingegneri, hanno appreso a guidare i trattori, ad allevare mucche, polli e pecore, a fare innesti sugli alberi da frutto per ottenere prodotti selezionati. In uno di quei kibbutz una ventina di giovani si è specializzata nella coltivazione dei gladioli. I fiori nel deserto, sembravano la pazzia; e forse lo erano, ma significavano anche la testarda tenacia degli israeliani nel vincere ogni difficoltà. Sono stati creati complessi canali di irrigazione, spostati milioni di metri cubi di terra, sono nati dei boschi dove prima non spuntava neppure un filo d’erba.

 

Su questa ingrata costa mediterranea gli ebrei hanno di nuovo smentito tutti gli esperti: il suolo sabbioso, ad alto tasso di salinità che contraddice ogni dato geologico, è un trionfo di coltivazioni: pomodori, cetrioli, datteri, capperi. “Adamo”, in ebraico, significa terra, dicono i residenti di quei kibbutz. Il kibbutz era un modo di vivere senza eguali, pazientemente eroico, sempre esposto alla minaccia del mondo arabo perché la sua funzione, oltre alla produttività, rimaneva quella di avamposto verso le linee nemiche, a nord in Galilea come a sud nel Negev, ai confini con la Striscia di Gaza.

 

Chi si è insediato a ridosso della Striscia ha sempre convissuto con la morte. Ogni tanto, uno del kibbutz saltava in aria col suo trattore; si faceva lutto per un giorno, e si ricominciava. Ma quello che è successo in questi giorni non ha precedenti in Israele. “Una volta non si osava scappare di fronte al pericolo”, scriveva nel 1991 il giornalista Dan Margalit alla vista di israeliani con le valigie in mano. Quanto sta avvenendo oggi nel sud del paese è molto più grave del panico durante la guerra del Golfo. La morte del piccolo Daniel Tragerman, quattro anni, ha spinto tutti gli abitanti di Nahal Oz a partire. I genitori del bambino hanno già detto che non torneranno nel kibbutz. Hamas ha ucciso il piccolo sparando da una scuola di Gaza, la Ali Bin Abi Taleb.

 

A Nahal Oz così non è rimasto nessuno. In tre giorni, 400 famiglie hanno chiesto di andarsene. I campi un tempo coltivati oggi sono bucherellati dai mortai di Hamas. Analisti israeliani paragonano la caduta del fronte sud, sotto i missili di Hamas, a quella della linea Bar Lev, la Maginot che gli israeliani costruirono lungo il Canale di Suez e che gli egiziani travolsero nel 1973. La linea Bar Lev, costruita dopo il 1967, da simbolo di eroismo, di fermezza, era divenuta simbolo di immobilismo. L’inopinato, rapido crollo della linea Bar Lev ha provocato in Israele un “terremoto psicologico”. Con la linea Bar Lev è caduto il mito della superiorità militare israeliana.

 

La situazione nel sud d’Israele è tale che nei giorni scorsi persino il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, e il capo di stato maggiore, Benny Gantz, hanno dovuto annullare una visita ai kibbutzim per “ragioni di sicurezza”. A differenza delle città del centro del paese, che offrono dai 60 ai 90 secondi di tempo per trovare un riparo in caso di missile, nel sud si hanno dai tre ai quindici secondi.

 

La minaccia silenziosa peggio dei razzi

 

Le strade israeliane a ridosso di Gaza sono state ridisegnate con delle curve per ingannare i missili al laser lanciati dai terroristi palestinesi. Sono stati aggiunti anche alberi. Le chiamano “foreste difensive”. Nel kibbutz di Kfar Aza sono caduti così tanti missili che i resti dei Qassam sono usati per decorazioni e vasi dei fiori. I colpi di mortaio sono così frequenti che in ebraico sono stati ribattezzati “tif tuf”, una pioggerellina.

 

I campi dei kibbutz vanno arati e gli animali accuditi. Così Israele ha inventato per i contadini i cosiddetti “rifugi portatili”. Tende fortificate da campo. Nel caso la sirena suoni mentre sei al lavoro. I contadini israeliani, che durante il giorno hanno sudato nei campi, la sera si chiudono nei kibbutzim e si apprestano ad affrontare una nuova notte di veglia. Con i fucili.

 

Missili sono caduti a Havat Shikmim, il ranch di Ariel Sharon, che aveva portato via gli israeliani da Gaza, promettendo sicurezza. I kibbutzim, ancor più dei missili, temono però quella che chiamano “minaccia silenziosa”. I tunnel scavati dai terroristi sotto le loro case. Non ci sono sirene per quelli. La morte sbuca senza avvertirti e ti porta via. Si sa che Hamas pianificava un “D-day” per il Capodanno ebraico, Rosh Hashanah, a settembre: duecento terroristi mandati a uccidere quanti più israeliani possibile nei kibbutz.
Ecco, questo è Israele.

 

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.