Janet Yellen e Mario Draghi (Foto Lapresse)

Il gospel della Bce

Ugo Bertone

Alleluia. Il dollaro sale, l’euro arretra. Come vuole Mario Draghi che da Jackson Hole la settimana scorsa ha intonato un gospel inedito per la riunione annuale dei banchieri centrali.

Milano. Alleluia. Il dollaro sale, l’euro arretra. Come vuole Mario Draghi che da Jackson Hole la settimana scorsa ha intonato un gospel inedito per la riunione annuale dei banchieri centrali. “Crescete posti di lavoro, assieme alle paghe e all’inflazione”, hanno cantato in coro Janet Yellen, colomba della Fed, Haruhiko Kuroda, capo della Bank of Japan e i rappresentanti della Bank of England che, al pari della Bce, non ha nello statuto l’obiettivo dell’occupazione. Tutti assieme senza note stonate. Ma la voce più vibrante è stata quella di Draghi, a una settimana da un direttivo della Bce che si annuncia caldo, così come il vertice dei capi di governo dell’Eurozona, che si spegne sotto i colpi della disoccupazione. “I rischi del non fare superano quelli del fare”, ha sillabato Herr Draghi. Un gospel del genere (l’espressione è del Nyt) a Jackson Hole non lo si cantava da vent’anni, da quando, nel 1994, Alan Blinder, vice di Alan Greenspan alla Fed, scandalizzò la platea dichiarando che “voi vi occupate troppo di inflazione, troppo poco del lavoro della gente”.

 

Ma, a differenza di quell’uscita isolata, la sfida di Draghi, che per mesi si è allineato alle tesi della Bundesbank (ancora oggi per Weidmann non esiste deflazione), ha subito riscosso l’applauso delle piazze finanziarie: salgono le Borse, Wall Street in testa, s’allarga la forbice tra i tassi Usa in vista di un rialzo che tra pochi mesi sarà comunque realtà e quelli europei si deprimono nell’attesa di una boccata d’ossigeno dalla Bce. Ma, soprattutto, prende corpo l’auspicata discesa dell’euro, la medicina più sicura e rapida per rilanciare l’export dell’Europa e, soprattutto, importare un po’ di rialzo dei prezzi: tonico indispensabile per rilanciare investimenti e capitali di rischio. Sembra facile, salvo che per svalutare euro (e yen) è necessario l’assenso di Washington, in genere assai restia a sostenere un dollaro troppo forte, ostacolo per il made in Usa. Ma stavolta, sembra, Draghi può contare su una buona sponda a Washington, quello che ci vuole per dar battaglia nel Vecchio continente, giunta in terra incognita oltre i confini delle competenze della Bce che, come ha voluto la Germania, non deve occuparsi altro che di moneta e inflazione. Ma di fronte alla caduta dei prezzi, l’1,1 per cento contro il target del 2 per cento, non bastano misure di politica monetaria, semmai un cambio di rotta della fiscal policy. Mica palliativi di pochi decimali da concordare con i ragionieri di Bruxelles, ma una politica che preveda obiettivi  comuni “all’insegna della crescita”. Draghi va assai al di là del suo mandato, come in un certo senso è già avvenuto nel 2012 quando il banchiere ha impegnato la Bce a promettere operazioni (in realtà mai effettuate) a favore dei paesi a rischio. Ma, oggi come allora, la situazione è così grave, seppure per diversi motivi, per spingere il numero uno della Bce a lanciare la sua offensiva.

 

Prima di tutto contro la cocciutaggine tedesca. Partita decisiva perché, al di là delle mille colpe di Italia e Francia, oggi il vero pericolo è che la locomotiva tedesca si fermi, come temono investitori e imprenditori (l’indice che ne misura la fiducia nell’economia, l’Ifo, è in calo per il quarto mese consecutivo). Berlino ha mezzi finanziari e occasioni per arrestare la frana dell’Eurozona, basta che metta in campo una parte delle sue risorse per attivare la domanda interna, predica il Fmi. Draghi probabilmente condivide, ma non può dirlo. Certo, il quadro non gli piace: la crisi di governo a Parigi, Merkel che gioca per l’Eurogruppo il ministro spagnolo De Guindos, contro i ribelli italo-francesi. Guerricciole di posizione irresponsabili in un contesto dove s’impone di “fare”, recita il gospel di Jackson Hole.