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No, Gaza non è il ghetto di Varsavia

Claude Lanzmann

Risposta dura e scritta con verità contro gli intellò francesi che hanno scritto un “testo partigiano, mendace, privo di coraggio e adescatore” che accusa Israele e il suo doloroso diritto di difendersi dai suoi nemici.

Si chiama “scambio ineguale”. Eric Marty ne aveva parlato in modo impeccabile nel numero 677 di Temps modernes. Per recuperare e restituire ai suoi cari uno solo dei loro soldati, Gilad Shalit, ostaggio di Hamas da oltre cinque anni, gli israeliani avevano ridato la libertà a 1.027 prigionieri palestinesi, che stavano scontando lunghe pene per crimini sanguinosi, e nel caso più grave l’ergastolo, poiché la condanna a morte non esiste nel paese: 1.027 contro uno!

 

E non era il primo scambio di questo tipo: già quattro o cinque volte in passato la teoria dello scambio ineguale era stata posta in atto da vari governi succedutisi in Israele, di destra così come di sinistra. All’epoca nessuno, tra le parti che avevano raggiunto l’accordo sullo scambio, così come tra i vigili e puntigliosi, scrupolosi contabili dei misfatti israeliani, si era azzardato a gridare alla sproporzione, nessuno aveva denunciato lo scandalo ontologico dello scambio ineguale, scandalo perché implicava in primis che le vite umane non hanno tutte lo stesso prezzo!

 

La verità è che, dalla Shoah e dalla morte di sei milioni di ebrei, che quasi bisogna vergognarsi se si osa ricordarla, gli israeliani attribuiscono alla vita di ognuno dei loro un prezzo senza misura: un valore tale che questo paese sembra autorizzare i suoi stessi nemici a esercitare su di esso un ricatto permanente, che sfocia in provocazioni della peggior specie.

 

Non è questo il luogo di dissertare sul rapporto unico tra giudaismo e vita che, proprio dalla Shoah, ha continuato a crescere e approfondirsi. Ma le 64 giovani reclute che hanno appena perso la vita a Gaza hanno avuto a malapena diritto a una menzione compassionevole nella stupefacente “intimazione” a François Hollande, presidente della Repubblica, pubblicata dal Monde (martedì 5 agosto) e firmata congiuntamente dai signori Rony Brauman, Régis Debray, Edgar Morin, accompagnati, per buona misura e per imbavagliare qualsiasi obiezione, da una quarta moschettiera, moglie del fu indignato Stéphane Hessel, Christiane di nome.

 

Testo partigiano, mendace, privo di coraggio e adescatore, della cui falsità gli spiriti augusti che l’hanno redatto non potevano non avere coscienza, così come della sua debolezza: in una parola, del suo vuoto. Si capisce che, nel pieno del mese di agosto e per essere certi che si concedesse alle loro affermazioni la gravità richiesta, abbiano immaginato di chiamare alla riscossa il presidente della Repubblica, arruolandolo sotto il loro vessillo per darsi consistenza, infliggendogli di essere “responsabile” di una certa idea di Francia e intimandogli di agire, in altre parole di scatenare e capeggiare una crociata anti israeliana. Non hanno osato raccomandare il dispiegamento di una o due squadriglie di caccia Rafale, che risolverebbero la questione alla libica e garantirebbero alla Francia di non perdere il proprio onore.

 

Ma non dubitiamo che questa brillante idea sia stata accarezzata da alcuni. Diamo fiducia a François Hollande: “Chi credono di essere”, penserà lui, come già François Mitterrand, che sapeva come rispondere a qualsiasi forma di intimazione: “Chi credete di essere? Per chi mi avete preso?”, come diceva sempre a chi pretendeva di forzargli la mano.
“A Gaza non si muore né di fame né di sete”

 

A chi potremo far credere che Hamas, nemico numero uno di Israele e della sua esistenza (i programmi scolastici di Gaza per ragazze e ragazzi su questo punto sono di una chiarezza e unanimità disperante) si sia fatta cogliere di sorpresa dai bombardamenti israeliani? Li ha voluti. Quale che possa essere l’orrore e la collera ispirati dal numero di morti e feriti civili, è Hamas il loro primo responsabile. Gioca a fare la verginella con un cinismo freddo cui fanno eco le quattro anime belle dell’“intimazione”.

 

Non è la prima volta che l’esercito israeliano penetra a Gaza e ogni volta le sue perdite sono così pesanti, sul bilancino della storia di questo popolo, che si capisce la sua reticenza a inviare i propri figli verso morte certa.

 

Ma così è questa bestia cattiva: quando viene attaccata, si difende. Attacca, per di più, senza pensare alle “sproporzioni” che le saranno rinfacciate. I nostri moschettieri si rinchiudono in un argomentare grottesco tra l’incidente aereo della Malaysia Airlines, attribuito a Vladimir Putin, e i morti palestinesi, vittime “mirate” e rivendicate da Israele.

 

Il fatto che Israele “miri” le sue vittime deve essere conteggiato a suo credito, e a suo onore. Telefoni, volantini e sms avvertono le persone che saranno bombardate.

 

Ci si congratula ridicolmente con il presidente della Repubblica per “essersi fatto carico del destino e del cordoglio delle famiglie delle vittime d’una catastrofe aerea in Mali” (come se non avesse di meglio da fare!), ma si tace accuratamente dei 10 mila missili sull’attenti nei tunnel di Gaza come le statue dei guerrieri Xi’an nello Shaanxi, in attesa del proprio turno di essere lanciati in modo, questo sì, indiscriminato sulle città israeliane, su Gerusalemme, Tel-Aviv e Haifa per la prima volta a portata. Hamas sapeva che l’assassinio di tre adolescenti israeliani rapiti, insieme alle ondate di missili sulle città ebraiche, avrebbe scatenato questa risposta, e l’ha voluta. La sua provocazione è riuscita, il che non significa che essa sia stata in grado di rompere il crescente isolamento di Hamas nel mondo arabo, che era probabilmente l’obiettivo inconfessato di tutto il fiato dato alle trombe.

 

Si parla di Gaza come di una prigione a cielo aperto, e si abbocca alle proteste di Hamas contro la chiusura, da parte egiziana, del varco di Rafah e contro lo smantellamento dei tunnel che passano sotto la frontiera sud.

 

La propaganda di Hamas è ben congegnata, ma è falsa, come sempre è la propaganda. A Gaza non si muore né di fame né di sete, i negozi traboccano merci, basta avere i soldi, e lo scontro tra classi esiste a Gaza come in ogni posto del mondo. Gli abitanti ricchi, che vivono nelle grandi ville sulle alture, non fanno la carità ai rifugiati, che trattano alla stregua di un cancro.
“Abbiamo avuto occasione di andare a Gaza, dove esiste un Istituto culturale francese; e gli SOS che riceviamo dai nostri amici in loco, che vedono i loro cari morire in una solitudine terribile, ci sconvolgono”, scrivono Rony, Edgar, Régis e Christiane. L’Istituto culturale francese di Gaza, parliamone: è un regno del caos umanitario, messo lì come avamposto della propaganda anti israeliana riecheggiata da mille altoparlanti che cercano di far passare una città nemica, e per questo sottoposta ai blocchi, per il ghetto di Varsavia.

 

Claude Lanzmann
scrittore e cineasta


Ripubblichiamo la lettera apparsa sul quotidiano francese Monde il 20 agosto scorso dal titolo “‘Quatre mousquetaires’ pro Gaza en croisade contre Israël”
(traduzione di Elia Rigolio)