Il patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio, 79 anni

L'epopea degli occhiali

Stefano Cingolani

Le società migliori sono quelle nelle quali uno dei due soci muore la notte immediatamente dopo la firma del contratto”. Cesare Vivante, considerato il padre del diritto commerciale italiano, amava colpire con sentenze irriverenti, “nate dalle cose”, cioè dalla realtà.

Le società migliori sono quelle nelle quali uno dei due soci muore la notte immediatamente dopo la firma del contratto”. Cesare Vivante, considerato il padre del diritto commerciale italiano, amava colpire con sentenze irriverenti, “nate dalle cose”, cioè dalla realtà. Il giurista morì nel 1944. Leonardo Del Vecchio aveva solo nove anni, era orfano di padre e, capelli rasati a zero, trascorreva le notti scosse dai bombardamenti nelle camerate dei martinitt, come venivano chiamati gli orfani milanesi perché ospitati, nel XVI secolo, nel convento di San Martino. Tuttavia, fin da quando nel 1961 aprì ad Agordo la prima fabbrichetta per montature di occhiali, il secondo uomo più ricco d’Italia è stato iscritto d’ufficio alla scuola giuridica di Vivante. Lo scontro al vertice che ha portato alle dimissioni dell’amministratore delegato Andrea Guerra, ne è una prova concreta. E non è la prima.
Quindici anni fa, il primogenito Claudio aspirava a prendere la guida operativa dell’impero, ma dovette mollare, così decise di battere la propria strada comprando e rilanciando la Brooks Brothers che aveva vestito Lincoln e Gianni Agnelli, ma non vestiva più i nuovi americani. Leonardo non fa sconti a nessuno: lo dimostrano i rapporti d’affari bruscamente interrotti con l’amico Giorgio Armani (anche se lo stilista rrimane azionista di Luxottica e dopo dieci anni ha stretto un nuovo accordo commerciale), o gli screzi ai vertici delle Assicurazioni Generali delle quali è azionista rilevante.

 

E’ il paradigma Vivante che incide soprattutto sulla successione. Sembrava quasi scontato che Del Vecchio volesse adottare il modello di Berle & Means, separando proprietà e gestione: lui a Monte Carlo a godersi lo yacht da 62 metri Moneikos e a giocare a risiko con i suoi pacchetti d’azioni eccellenti; ad Agordo, a Milano, in Cina o a New York un manager di professione. Invece no, la panchina per quanto foderata di velluto, non gli si addice; Del Vecchio non può lasciare nelle mani di nessun altro l’impero creato dal nulla. Ormai è una delle prime vere multinazionali italiane. Su 70 mila dipendenti, 60 mila sono fuori dall’Europa, la maggior parte impiegati nella vendita al dettaglio e all’ingrosso. Distribuisce 73 milioni di montature per occhiali nel mondo e ne produce 275 mila al giorno nei propri stabilimenti (sei in Italia, due in Cina, uno in India e uno negli Stati Uniti per gli occhiali da sole).

 

I motivi del conflitto con Guerra non sono chiari. Tanto che le scuole di pensiero diventano addirittura tre. La prima chiama in causa la strategia. Sono sorti dissidi sull’accordo raggiunto cinque mesi fa con Google per gli avveniristici occhiali web, i Google Glass. Ora si stanno formando solo squadre di tecnici, il lancio è previsto per l’anno prossimo, ma si presenta costoso e ad alto rischio (“Bisogna convincere la gente ad indossare un computer”, ha ammesso Astro Teller responsabile del progetto per conto di Google). Dunque, tutto il contrario della filosofia Del Vecchio attenta ai conti, aliena dai debiti e restia a fare il passo più lungo della gamba. Va bene la moda con i marchi glamour (Bulgari, Ralph Lauren, Prada e via di questo passo), va bene l’acquisizione di Persol o anche quella, più azzardata, della mitica Ray-Ban, in fondo fanno tutti lo stesso mestiere. Ma la high tech è tutta un’altra cosa. Guerra ci crede, il patron no e vince il patron.

 

La seconda spiegazione è più triviale: Guerra voleva più soldi. Non che guadagni poco. In dieci anni ha incassato 65 milioni; del resto, durante la sua gestione il titolo è triplicato (da 13 a 39 euro), mentre i ricavi sono più che raddoppiati (da 3 a 7 miliardi) con una capitalizzazione pari a 20 miliardi. Nonostante la crisi, dal 2008 i debiti si sono ridotti, mentre sono aumentati gli utili e il capitale. Dunque, Guerra è un amministratore di successo e nello stesso tempo un uomo che guarda alla sinistra riformista. Negli ultimi tempi, così, è stato tutto un corteggiamento da parte del governo Renzi: prima un posto da ministro, poi uno al vertice delle Poste o di qualche altra azienda a partecipazione statale. Il manager ha alzato il prezzo ed è entrato in rotta di collisione.

 

Il terzo filone ha a che fare proprio con la politica. L’investitura da parte di Renzi non è piaciuta a Del Vecchio che ha sempre cercato di tenersi lontano da ogni coinvolgimento diretto. Non ha mai chiesto auti ai governi, s’è fatto da solo e da solo vuole restare, niente favori da ricevere né da restituire. Il balzo in avanti lo ha compiuto in America, grazie alla scelta di quotarsi a Wall Street. A Piazza Affari è arrivato sull’onda di un successo già multinazionale. Del Vecchio ha le proprie preferenze politiche, sia chiaro. A lui fin dall’inizio era piaciuto Berlusconi, a differenza del clan Agnelli e dei salotti buoni (dei quali non ha mai fatto parte) ed è sempre rimasto vicino al Cavaliere. Finché, deluso, ha finito per sostenere Beppe Grillo. “Premier? E perché no – ha dichiarato il primo marzo – Non credo sia più stupido di quelli che abbiamo avuto fino adesso”. E si è sbilanciato fino ad auspicare un governo tra Pd e pentastellati: “Se rifanno tutto non è male, se invece continuano a nominare gli stessi allora è tutto inutile”. Sono stati in parecchi, tra Lorsingori, a votare Grillo nonostante le invettive del comico contro l’imperialismo delle multinazionali. Ma Del Vecchio è l’unico ad essersi esposto apertamente, suscitando un mare di polemiche. Dunque, meglio tornare sotto traccia e seguire la politica dietro le quinte. L’attivismo attorno a Guerra, insomma, deve averlo seccato.

 

Così, il martinett del capitalismo italiano (fino al 1970 c’era Angelo Rizzoli senior a contendergli il titolo, ma allora il re degli occhiali era solo agli esordi) è di nuovo solo al comando, come sempre, fin da quando alla Luxottica, incastonata tra le Alpi, lavoravano in sette, tra i quali se stesso e il fratello più il capo officina Luigi Francavilla che è rimasto sempre al suo fianco e siede in consiglio di amministrazione come vicepresidente. Erano gli anni in cui Leonardo di notte caricava il camioncino per arrivare presto a Milano e fare il giro dei negozi. I tempi in cui si teneva sveglio con la simpamina, come egli stesso ha raccontato, e sgomitava per farsi spazio convinto che il mondo avrebbe avuto sempre più bisogno non solo di lenti, ma di occhiali leggeri, eleganti, spiritosi persino.

 

I grandi risultati sono frutto di una notevole capacità di organizzare e vendere. Gli esperti direbbero che per capire Luxottica bisogna partire dal retail e risalire fino al vertice, in parole povere dal consumatore al produttore. Ma Del Vecchio non è un piazzista, comincia come incisore e adatta il suo mestiere alle montature degli occhiali fin dal 1961 quando lavora in esclusiva per la Metalflex. Nel 1968 si mette in proprio e dieci anni dopo compie il salto commerciale acquisendo la Scarrone, numero uno in Italia nella distribuzione di occhiali. Da allora, non si ferma più. Nel 1982 sbarca negli States e acquista il 50 per cento della Avant-Garde Optics, prima al mondo nei prodotti ottici, e comincia a darsi una struttura più sofisticata con una holding finanziaria al vertice, la Fininco che nel 1987 diventa società per azioni con il nome Luxottica Group.

 

Il salto nella moda con Armani e tutti gli altri marchi colloca l’azienda ancora poco conosciuta sotto i riflettori e prepara la quotazione a Wall Street. Idea coraggiosa, non azzardata. La Borsa di Milano (siamo nel 1990) ha consumato un decennio in ascesa e resta sempre l’anticamera dei soliti noti, mentre si fanno sotto i nuovi padroni, i banchieri che di lì a poco assorbiranno circa la metà dei valori quotati. Meglio gettarsi nel mare grande, soprattutto se si è in grado di nuotare. Il collocamento riesce, Luxottica incamera denaro fresco ed è pronta per nuove acquisizioni che negli States culminano con Ray-Ban nel 1999 e in Italia con Persol nel 1995.

 

La campagna d’America che ha segnato il salto di qualità si deve al primogenito Claudio responsabile di tutte le attività Usa dal 1982 al 1997. Vantando le buone prove e le qualità messe in luce, il giovanotto cerca spazio, convinto che il padre gli avrebbe lasciato al più presto le redini dell’azienda. Ma così non è. Anzi, aumentano le tensioni, anche se nella struttura della proprietà Claudio ha mantenuto un ruolo di prim’ordine.

 

Padre e figlio alla svolta del millennio fanno la pace, Claudio si ritira e decide di restare negli Stati Uniti prendendo una strada parallela. L’occasione clamorosa arriva subito dopo l’11 settembre. L’attacco di al Qaida alle Torri gemelle ha distrutto anche Brooks Brothers, storico marchio d’abbigliamento dell’establishment americano. Il negozio al numero 1 di Church Street è distrutto e Marks & Spencer, la catena inglese di grandi magazzini, decide di vendere tutto. Claudio non si fa scappare l’occasione, ghiotta anche perché l’Italia è il paese europeo dove il marchio Brooks Brothers è più amato e conosciuto. L’acquisizione è costosa, quasi 225 milioni di dollari in contanti, in parte raccolti vendendo azioni Luxottica, in parte anticipati dal padre che lo incoraggia anche se molti pensano che sia un azzardo. Invece, dopo pochi anni arriva una svolta clamorosa e oggi, con un fatturato di un miliardo di dollari e una linea meno polverosa, è sbarcato in Europa a cominciare da Italia e Gran Bretagna.

 

Tutto è bene quel che finisce bene? Non esattamente. La successione e la gestione restano un problema e Del Vecchio, dopo l’uscita di Claudio, deve trovare due soluzioni, una per la catena della proprietà, l’altra per il comando in azienda.
Negli anni Novanta il gruppo era controllato da due finanziarie: la Leonardo che faceva capo al fondatore e deteneva il 56 per cento delle azioni e la Delfin con il 15 per cento nelle mani del delfino (nomen omen). Restava però incerta la posizione degli altri eredi avuti da mogli e compagne diverse. Il primo matrimonio con Luciana Negro era finito con un divorzio e tre figli: oltre a Claudio anche Marisa e Paola. Dalla seconda moglie Nicoletta Zampillo è nato Leonardo Maria. Ma anche questa relazione s’era sciolta per vie legali. Poco dopo nella vita di Leonardo entrava Sabina Grossi. Altri due figli, Luca e Clemente, con una separazione (niente nozze questa volta) quando è tornata in scena Nicoletta con la quale Leonardo si è sposato di nuovo nel 2010. Dunque, dividere il patrimonio è diventato sempre più complicato. Di qui le ansie del delfino.

 

Per cambiare l’assetto proprietario Leonardo Del Vecchio fonde in Delfin le due finanziarie al comando e rafforza così il proprio controllo. In occasione delle sue seconde nozze con Nicoletta Zampillo pensa di costituire una fondazione composta da tutti i figli, affidando loro in parti uguali la nuda proprietà e riservandosi l’usufrutto fino alla morte. Restano irrisolti però i problemi legali legati alla quota legittima (un quarto spetta alla vedova).

 

Non si sa esattamente a quanto ammonti la ricchezza di Del Vecchio. Forbes ha calcolato 15,3 miliardi di dollari (numero 49 al mondo nel 2013). Non tutto è compreso nella holding. Per esempio lo yacht, il jet privato e una serie di palazzi e immobili a Milano, Chamonix e varie parti d’Europa. Una struttura non del tutto trasparente secondo il fisco italiano che ha contestato proprio le finanziarie “esterovestite”, domiciliate in Lussemburgo, a Londra, in Olanda. Nel 2009 Del Vecchio ha raggiunto un accordo con l’Agenzia delle entrate per 300 milioni, in fondo non troppo oneroso. I beni dell’ex martinett e la loro divisione restano rompicapi non solo legali, ma affettivi per un uomo che si è sempre presentato come padre e nonno premuroso.
Per gestire l’azienda, Del Vecchio cerca un manager di nome. Nel 2004 assume Andrea Guerra, figlio di un principe del foro romano, amico fin dai tempi della scuola di Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio, l’uomo forte del Pd romano. Amministratore capace e di belle maniere, ha lanciato il gruppo Merloni all’estero prendendo Indesit e sbarcando in Inghilterra.

 

Sembra l’uomo giusto anche perché nasconde la propria determinazione dietro una cortina di comprensione, dialogo, consenso. “Parlare e capire – dice sempre – Per guidare gli uomini, bisogna cominciare da queste due semplici azioni”. Con lui, Luxottica mette una marcia in più e compie un secondo salto, dopo quello americano. Entra in Cina, in Turchia, in Messico e si estende a nuovi rami, senza allontanarsi dal tronco principale, seguendo insomma la cultura aziendale che pretende la massima concentrazione sul mestiere che si sa fare meglio degli altri. Così, nel 2007 arriva la statunitense Oakley specializzata nell’ottica per lo sport: costa (2,1 miliardi di dollari in contanti) ma arricchisce il portafoglio prodotti e lo rende più sofisticato. L’accordo con Google, in fondo, rappresenta il culmine di questa strategia rivolta a un pubblico nuovo e alla tecnologia non solo alle catene di vendita.

 

Guerra si è spinto troppo in là? Vedremo. Certo Del Vecchio, nonostante sia ormai vicino alla soglia degli 80 anni, non si ritira nella dorata Monte Carlo e non si fa rottamare. Né l’amato primogenito né lo stimato manager lo hanno scalzato. Il primo settembre si riunisce il consiglio di amministrazione e si parla di un cambiamento per linee interne: per esempio il direttore generale Enrico Cavatorta sotto la supervisione di Francavilla o il banchiere Claudio Costamagna, molto ascoltato da Del Vecchio, che siede in cda. Tuttavia, anche se prevarrà un esterno come Gianmario Tondato Da Ruos oggi in Autogrill o Bob Kunze-Concewitz che guida Campari (i nomi per ora più gettonati), nessuno avrà bisogno di chiedersi chi comanda davvero. Il colpo di coda del patron non lascia spazio a equivoci.

 

Proprietà e gestione vengono riunite, ma ancora una volta si ripropone l’eterna domanda sul destino del capitalismo familiare italiano. Il dubbio già sollevato per i nomi storici, quelli del primo capitalismo (gli Agnelli, Pirelli) o per i condottieri degli anni Ottanta (da De Benedetti a Berlusconi), vale anche per i protagonisti di quel quarto capitalismo che finora ha impedito la decadenza industriale dell’Italia. I figli dei Merloni, che Guerra conosce bene, non sono stati in grado di seguire le orme dei padri e hanno venduto all’americana Whirlpool. Gli eredi Agnelli hanno trovato manager di prim’ordine, da Gianluigi Gabetti a Sergio Marchionne. Ma non s’è fatto avanti un modello nuovo. Così, il paradigma Vivante che ha rappresentato il meglio e il peggio del capitalismo italiano, è ancora in auge. E c’è chi canta già il de profundis al primato dei funzionari del capitale sui capitalisti, mettendo nello stesso mazzo l’uscita di Guerra e quella di Giovanni Perissinotto dalle Generali, il conflitto tra Enrico Cucchiani e Giovanni Bazoli in Banca Intesa o lo stesso incerto destino di Alessandro Profumo e dei McKinsey boys.
Luxottica praticamente non ha sentito la crisi; insieme a Tod’s, Campari, Autogrill, Prysmian (ex Pirelli cavi), Tenaris e una pattuglia di altre lepri coraggiose, è saltata sulla globalizzazione e ha contribuito a tenere a galla l’Italia. Ma vive in un ambiente sempre più instabile e competitivo, dove il futuro è tutto da reinventare, mentre dietro non s’intravedono nuovi capitali di ventura pronti a prendere il testimone. E’ presto per fasciarsi la testa, ma le bende vanno sempre tenute a portata di mano.

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