Matteo Renzi (foto LaPresse)

Largo ai giovani e bando ai soliti noti (e ai tromboni)

Giuliano Ferrara

Sono uno dei soliti noti. Bisogna togliergli l’Italia, dice Matteo Renzi. Ha ragione, mi dico. Ma non sono il solo solito noto. E mi piacerebbe che quelli tra i cinquantacinque e i sessantacinque anni mettessero anche loro in bella copia i loro curriculum, riflettessero sulla trombonaggine di certe pretese.

Sono uno dei soliti noti. Bisogna togliergli l’Italia, dice Matteo Renzi. Ha ragione, mi dico. Ho cominciato a frignare di giornalismo e di politica da bambino. Facevo da teenager un giornale che si chiamava “La questione”, fogli di menabò della tipografia dell’Unità, dove lavorava mio padre, testata e titoli a pennarello, articoli a macchina su carta extra strong appiccicati con la coccoina. Tutte cose che non si trovano più o, a trovarle, non servono più. A parte le ginocchia di Togliatti, e le cene famigliari con il Migliore, ho fatto liceo classico e Sessantotto precoce, più il famoso autunno caldo, poi ho lavorato da garzoncello di talento alle Botteghe Oscure, sezione propaganda, con Gian Carlo Pajetta, e presto sono finito alla scuola della classe operaia, che anche lei non c’è più, a Torino, che resta ma quanto è diversa da allora. La mia formazione è stata la fabbrica, il terrorismo politico anni Settanta, come le poteva vedere un quadro comunista sui vent’anni, con idee chiare e borghesi, ma ambientate nel secessionismo politico del movimento di classe torinese. Ho vissuto da comunista italiano tutte le stagioni della follia italiana: la strage di stato cosiddetta, e le sue conseguenze anche le più deliranti; le Brigate rosse, il pentitismo e la caccia alle colonne urbane e ai loro capi; il compromesso storico e l’eurocomunismo di Berlinguer e Carrillo, una strategia che fu colma di realismo e di audacia insieme, con Andreotti che accompagnava il tutto dall’alto o dal basso della sua sapienza cattolica e vaticana; l’affaire Moro tormentoso e emozionalmente e politicamente definitivo; la sconfitta sindacale alla Fiat; le turbolenze di un mondo che era quello della guerra fredda. Divenuto anticomunista militante, e notista politico professionale per un anno dei servizi americani, ho abbracciato da ex comunista il progetto di Craxi: competere con i comunisti e i democristiani, instaurare il decisionismo in un paese che non lo conosceva, sconfiggere il conservatorismo dell’establishment anche con l’aiuto del patron televisivo Berlusconi. Mi sono entusiasmato per la Thatcher, anche alle Falkland, quando Craxi tifava per il colonnello argentino Galtieri, e per Reagan e la rivoluzione liberista degli anni Ottanta. Poi cose più note come la fine della prima Repubblica, l’annientamento dei partiti e di Craxi, l’entrata in lizza dell’outsider Berlusconi, di cui fui consigliere politico e ministro nel suo primo governo. Nel frattempo, giornalista in mancanza di un lavoro serio, dopo una gavetta nel giornale degli ex di Lotta continua finanziato da Martelli e Craxi, e dopo una esperienza al Corriere dove mi aveva infilato Alberto Ronchey, amico di famiglia e poi mio per una vita, ho fondato con un gruppo di amici un quotidiano, quello che state leggendo, e sono stato per vent’anni tra politica, tv – dove facevo sconquassi – e delizie foglianti cioè idee a schiovere sull’universo mondo, laicamente all’ombra della teologia militante di un Ratzinger e inorridito dal serial dell’islam politico dopo l’11 settembre e dell’aborto eugenetico e consimili.

 

Vi pare che un tipo così possa ambire ad altro che a dire la sua ancora per qualche anno, in un angolo riparato del paese, senza ambizioni di eterodirezione della politica? Sono uno dei soliti noti, in un certo senso me ne vanto, in un altro senso capisco Matteo Renzi e l’insopprimibile bisogno di togliere di mezzo queste generazioni civili che, fatte alcune cose significative e buone, nella battaglia per un paese appena migliore, modernizzato e riformato, più ricco e decentemente eguale nelle opportunità per i suoi cittadini, hanno con onore perduto.

 

Non credo di essere il solo solito noto. E mi piacerebbe che quelli tra i cinquantacinque e i sessantacinque anni mettessero anche loro in bella copia i loro curriculum, riflettessero sulla trombonaggine di certe pretese, la prendessero più bassa quando fanno la coda del pavone e irridono le giovani ministre “incompetenti” o il premier ragazzino. Mi piacerebbe che la finissero di attribuirsi premi e prestigio, che fossero un poco più responsabili e severi con sé stessi, i soliti noti che pullulano nelle pieghe dell’immobilismo italiano, magari dopo aver fatto qualcosa di sensato e di buono anche loro, e molti errori come tutti. Largo ai giovani e bando ai tromboni: non avrei mai pensato che potesse essere questo un programma civile, invece lo è.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.