Continuano a Ferguson, Missouri, le proteste dopo l’uccisione dell’afroamericano Michael Brown da parte di un poliziotto

La svolta di Ferguson

Il libertario Rand Paul si schiera contro l’eccessiva militarizzazione della polizia e detta una nuova linea al Partito repubblicano. Tramonta la destra “law and order”.

L’omicidio di Michael Brown a Ferguson e le sue conseguenze fatte di violenza, lacrime – indotte dal dolore o dal gas – manifestazioni di piazza aizzate dai resuscitati spettri del razzismo, dispiegamento di forze in stile bellico in un sobborgo tribolato ma pur sempre regolato da uno stato di diritto hanno tracciato una linea davanti ai piedi dell’America. Non è soltanto la divisione fra colpevolisti e innocentisti. Si tratta dell’antica partita fra forze dell’ordine e manifestanti, fra la mano che scaglia la pietra e quella che impugna la pistola, fra le dure necessità della pace sociale e le grida soffocate della giustizia nella culla dei diritti individuali. Da una parte gli individui disordinati, dall’altra lo stato che tiene a freno le passioni. La disposizione degli schieramenti prescinde ormai dai dettagli di un omicidio di cui, a ben guardare, si sa ancora molto poco. I sostituti procuratori di Repubblica certificano con certezza tribunalizia che è stata “un’esecuzione feroce”, mettendo di fatto sullo stesso piano il poliziotto Darren Wilson e il boia dello Stato islamico che ha decapitato il giornalista James Foley. Per tutti gli altri, movente e dinamica dell’omicidio del diciottenne Big Mike sono ancora avvolti nella cortina fumogena delle contraddizioni, con versioni divergenti, autopsie su commissione, testimonianze che non collimano nemmeno con le prove esibite dalla stessa parte in causa.

 

Le indagini andranno avanti sotto la supervisione di Eric Holder in persona, uno che si è presentato alla città di Ferguson dicendo che certo, sulla porta del suo ufficio c’è scritto “procuratore generale”, ma lui è innanzitutto un uomo orgogliosamente nero. Difficile immaginare persona più adatta per garantire che indagini e processo non siano viziate da pregiudizi di razza e inquinati da quella forma ereditaria di segregazione per cui in una cittadina con il 67 per cento della popolazione afroamericana il 96 per cento dei poliziotti è bianco. Oltre al sindaco, alla stragrande maggioranza dei consiglieri della città, agli impiegati pubblici e via dicendo. La linea di demarcazione, a Ferguson, riguarda la reazione dello stato alla tensione sociale. Faccenda che supera la tragedia umana e i reagenti razziali che pericolosamente si mescolano nella vicenda. Il senatore Rand Paul – repubblicano e libertario – non ha perso l’occasione per varcare con decisione la linea, passando se non dalla parte dei manifestanti almeno contro quella dei poliziotti. E con la sua caratteristica capacità di cavalcare circostanze apparentemente lontane dalla sua sensibilità culturale e politica ha esplicitato un cambio di paradigma che la destra si rigirava da tempo nel subconscio. Un bubbone che improvvisamente è esploso.

 

A Ferguson, Rand Paul ha decretato la fine della destra “law and order”, manganellatrice a prescindere, che sbandiera la sicurezza come condizione necessaria e sufficiente della pace sociale, la destra della grande guerra al crimine intesa innanzitutto come logica di prevenzione e deterrenza guidata da un massiccio dispiegamento di forze. E se il fine supremo della stabilità sociale esige un tributo in termini di libertà, pazienza. Avanti con il racial profiling e con i blindati in città. Per decenni questa impostazione del problema della sicurezza è stata una faccenda non negoziabile in campo repubblicano e ci sono volute le immagini di un sobborgo sotto assedio militare, tenuto sotto controllo con armi e mezzi smisurati rispetto alla minaccia da contenere, per superare una soglia psicologica.

 

Di fronte ai fucili M16 d’assalto, alle maschere antigas, ai visori notturni, ai mezzi blindati con mitragliatrici sulla ralla, ai lanciagranate, agli humvee, alle squadre di Swat nerovestite, e alle altre eccedenze del Pentagono girate agli organi di polizia, Paul ha scritto sul settimanale Time un editoriale con cui la destra mainstream non poteva non convenire, a denti più o meno stretti. “La polizia ha il compito legittimo di mantenere la pace, ma ci dev’essere una differenza fra un’azione di polizia e un’azione militare. Le immagini che stiamo vedendo assomigliano più a un’azione militare”. Paul si richiama alla distinzione del giurista conservatore Glenn Reynolds: “Il soldato e il poliziotto dovrebbero essere due figure differenti. La polizia ha lo sguardo rivolto all’interno. Deve proteggere i suoi concittadini dai criminali e mantenere l’ordine con un uso minimo della forza”. Questa concezione s’è perduta fra i lacrimogeni del Missouri. Il senatore del Kentucky cita poi le ricerche del Cato Institute e di altri fonti libertarie che da anni mettono insieme dati sugli assurdi meccanismi di riciclaggio dei mezzi militari dai fronti di guerra ai distretti di polizia, per cui esistono cittadine rurali di poche migliaia di abitanti in cui non si vede un omicidio da anni ma lo sceriffo ha in dotazione un carro armato. Non lo tirerà mai fuori dall’hangar: almeno fino al giorno in cui un diciottenne disarmato non viene ucciso con sei colpi di pistola nella contea.

 

Come si è arrivati a una tale militarizzazione delle forze di polizia? Paul scrive che “è dovuta a un’espansione del potere dello stato in questo ambito. Una cosa è la collaborazione fra i funzionari federali e le autorità locali per ridurre il crimine. Un’altra è fornire sussidi”. Lo stato federale è naturalmente la fonte a cui ricondurre tutti i malanni dell’America. Le proteste razziali di Ferguson sono il risultato del sistema della giustizia criminale che sistematicamente punisce i neri, dice Paul. La stessa storia della “repressione afroamericana – sostiene – viene dal razzismo decretato dallo stato. Le leggi di Jim Crow erano il prodotto di stati e governi locali fanatici”. Nella cosmogonia di Paul è nato prima il big government del razzismo: uno è la causa remota dell’altro. La domanda ulteriore, che il senatore non ha bisogno di far affiorare nel suo editoriale, è: chi storicamente ha favorito quest’intrusione dello stato in nome della sicurezza, della lotta alla crimine, della pace sociale da mantenere con la frusta? Naturale: la destra “law and order” che quelli come Paul apertamente disprezzano. In termini strettamente ideologici, non c’è nulla di nuovo nella posizione esposta dal senatore figlio del grande idolo libertario Ron, l’uomo che in barba ad Alexander Hamilton e alla sua stirpe deviata vuole abolire la Fed. La sensibilità libertaria implica per sua natura la repulsione verso qualunque invadenza dello stato nella vita dei cittadini, specialmente se lo stato ha una mano armata e con l’altra cerca di disarmare i cittadini di un paese fondato sul secondo emendamento. Secondo la formulazione tradizionale, lo stato è il “guardiano notturno” della società, armonioso insieme di egoismi razionali bisognoso di un minimo di protezione. Quello visto a Ferguson è un guardiano a tempo pieno.

 

L’uomo libertario è un Atlante in rivolta, è dio a se stesso, ma non è un buon selvaggio né un lupo. Per evitare che le sue passioni esondino, violando l’egoismo razionale del vicino, non serve un Leviatano, basta uno “stato minimo”, come sosteneva il filosofo Robert Nozick, uno dei padri di Paul, che tuteli il principio di non aggressione. Per Nozick le uniche funzioni fondamentali che spettano legittimamente allo stato centrale sono la polizia, l’esercito e i tribunali, e occorre chiaramente distinguere fra ruoli e scopi delle tre entità. Ayn Rand usa l’immagine del poliziotto per descrivere lo stato correttamente inteso: “L’unico scopo proprio dello stato è proteggere i diritti degli uomini, il che significa proteggerli dalla violenza fisica. In quanto agente della legittima difesa può usare la forza contro chi usa la forza per primo”. Il brano prosegue con un passaggio che fa saltare sulla sedia tutti i libertari che in queste settimane hanno seguito le notti di lacrimogeni e coprifuoco nel Missouri: “Uno stato che inzia a usare la forza contro uomini che non l’hanno usata, che usa la coercizione armata verso vittime disarmate, è un incubo, una macchina infernale disegnata par distruggere la moralità. Uno stato del genere rovescia il suo unico scopo morale e passa da protettore a nemico mortale dell’uomo, da poliziotto a criminale con il diritto di esercitare violenza sulla vittima privata del diritto all’autodifesa”. Paul naturalmente non è contro le armi ma contro l’eccesso di armi nelle mani sbagliate, cioè quelle dello stato, e nell’esibizione di potenza bellica dopo l’omicidio di Brown ha visto l’occasione per schierarsi dall’altra parte dei lacrimogeni.

 

La novità è che questa volta Paul non è il donchisciottesco portabandiera di una setta estremista, ma il pioniere di una rivoluzione antropologica che i conservatori hanno preso a somatizzare. A Ferguson, Paul ha cessato di essere il figlio di un dio minore e di un padre così isolazionista che contesta l’esistenza di basi militari americane fuori dai confini. Ora l’intransigente Ted Cruz dice che nel Missouri si sta consumando una tragedia e il falco John McCain che quei mezzi sarebbero molto appropriati per l’Iraq, non per i sobborghi di St. Louis. Fino a non molti anni fa una reazione del genere nel mondo conservatore sarebbe stata impensabile. Richard Nixon sulla lotta senza quartiere al crimine ci ha vinto le elezioni; Rudy Giuliani è entrato nella leggenda per avere ripulito New York con la tolleranza zero; Nelson Rockefeller, così centrista da essere in perenne sospetto di eresia, da governatore di New York ha firmato leggi severissime sulla criminalità – specialmente per i reati di droga – per rendersi accettabile agli occhi dei suoi. Viceversa, molti democratici sono stati spazzati via dalla scena politica per essersi mostrati troppo morbidi nella lotta al crimine. Bill Clinton nel 1992 ha argutamente fatto vela verso il suo stato, l’Arkansas, per assistere all’esecuzione di un prigioniero, manovra che gli ha restituito una buona rendita alle primarie democratiche dell’Iowa qualche giorno dopo. Più tardi ha fatto costruire prigioni a mani basse e ha introdotto sessanta nuove fattispecie di reato a quelle punibili con la pena di morte. C’è chi dice che ora i repubblicani sono contro lo stato di polizia perché cercano voti fra le minoranze etniche che per estrazione demografica tendono generalmente a sinistra. Ma se la ricerca di un nuovo elettorato comporta l’alienazione di quello storico il gioco non vale la candela. Il fatto è che oggi l’elettorato conservatore storico, di convinzioni tradizionali, di fronte al dispiegamento della forza dello stato vacilla, s’inquieta. Sarà, come osserva Peter Beinart applicando il principio di economia, che il tasso di criminalità è crollato negli ultimi vent’anni e la sicurezza urbana è uscita dalla lista dei temi dirimenti. Ma ai libertari piace pensare che sia una delle grandi vittorie di Paul, una vittoria di quel genere indiretto per cui un giorno tutto il mondo parla del Tea Party, quattro anni dopo tutti parlano della sua morte, salvo poi notare che il programma del Partito repubblicano ufficiale somiglia terribilmente a quello proposto dal Tea Party appena prima di scomparire.

 

E’ così che i movimenti a vocazione minoritaria definiscono il concetto di vittoria. Paul sta vivendo la sua fase pop, anzi punk. Qualche settimana fa il senatore è finito sulla copertina del New York Times magazine immortalato come un cantante underground ai tempi del Cbgb, e con la “A” anarchica appuntata sui caratteri gotici della testata. Kennedy, attivista libertaria ed ex conduttrice di Mtv, ha spiegato al giornalista Robert Draper l’analogia grunge dei pezzi grossi della politica libertaria: Ron Paul è i Nirvana, Rand Paul è i Pearl Jam, Ted Cruz è gli Stone Temple Pilots. Significa che Rand è in un territorio intermedio e ideologicamente impuro, fatto di fedeltà al proprio genere politico ma senza il gusto della nicchia per la nicchia. A differenza del padre non chiede la legalizzazione dell’eroina e nemmeno della marijuana, non vuole smantellare la Fed, si dichiara “pro life al cento per cento” facendo innervosire i più intransigenti esegeti di Ayn Rand, secondo cui “l’aborto è un diritto morale”. Bene la vocazione minoritaria e benissimo gli straw poll dell’Iowa, ma nel 2016 si corre per la Casa Bianca e Paul ci crede. Alla vittoria? No, quella non è alla portata. Ma può puntare a fare in modo sistematico quello che negli ultimi anni ha fatto in modo episodico: riempire i vuoti del Partito repubblicano in crisi di idee e di carisma. Camaleontico, l’oftalmologo del Kentucky si barcamena fra diverse identità. Ai convegni con i più giovani – il pensiero libertario funziona a meraviglia fra i millennial senza orizzonti ideologici definiti – è un puro della battaglia antistato, nelle istituzioni un interlocutore ragionevole, nelle interviste più posate non è nemmeno un libertario (“mi hanno attaccato questa etichetta al collo, ma non sono un libertario”). E dice che il suo nome, diminutivo di Randal affibbiato dalla moglie, non c’entra nulla con la filosofia dell’oggettivismo. Per calcolo geniale o puro caso, si trova dalla parte vincente di alcune grandi questioni politiche che negli ultimi anni si sono infiammate.

 

Il rapporto fra i cittadini e le forze dell’ordine è un esempio. Ma c’è anche il tema della sorveglianza della Nsa, con tutte le sue implicazioni in termini di privacy e rapporto con l’autorità governativa. La mistura sapientemente preparata da Paul in questo ambito convince lo spettatore medio di Fox News, non dispiace agli hacker di Anonymous, suscita le simpatie di Google, coincide con le posizioni della sinistra dei diritti civili, esalta gli isolazionisti. Ce l’ha con i poliziotti di Ferguson, figurarsi con il poliziotto del mondo. Il mese scorso ha fatto un tour nella Silicon Valley, luogo lontano anni luce dalla sua America rurale, dai suoi pantaloni larghi, dagli stivali, dalle camicie button down, ma covo di “strange bedfellows” che se anche lo disprezzano per l’opposizione al matrimonio gay (peraltro dice: che decidano i singoli stati, modo per avallare il trend) si sentono profondamente uniti a lui nella battaglia per abbassare le tasse e combattere le regolamentazioni. Di questi tempi avere amici fra San Francisco e Palo Alto può fare una certa differenza. A Ferguson si è gettato su una causa libertaria classica e l’ha trasformata in una posizione accettabile, se non doverosa, per i repubblicani che una generazione fa avrebbero simpatizzato con i poliziotti, e non perché sono figli di poveri.