Diana e John Foley, i genitori del reporter ucciso in Iraq, scoppiano in lacrime parlando ai giornalisti (Foto Ap)

La fede della famiglia Foley è una luce in fondo all'orrore del fanatismo

Papa Francesco ha avuto una conversazione telefonica “lunga e intensa” con la famiglia del giornalista americano ucciso dai terroristi dello Stato islamico dopo una lunga prigionia. Il gesto di vicinanza ha lasciato i genitori, Diana e John, “profondamente commossi e grati”.

New York. Papa Francesco ha avuto una conversazione telefonica “lunga e intensa” con la famiglia di James Foley, il giornalista americano ucciso dai terroristi dello Stato islamico dopo una lunga prigionia. Il gesto di vicinanza ha lasciato i genitori, Diana e John, “profondamente commossi e grati”, perché il Papa “ha capito il cuore di Jim”; e Francesco, ha riportato il capo della sala stampa vaticana, Padre Lombardi, è stato particolarmente “colpito dalla fede” della madre, pilastro discreto di questa famiglia che non ha mai smesso di pregare e di invocare preghiere per il figlio. Nel ricordare la tenacia e il coraggio di James il padre ha detto: “Pensiamo che questa forza venisse da Dio”, e la moglie ha immediatamente corretto la fragilità di quel “pensiamo” con la formula della certezza: “Sappiamo che era così”. Nella veglia di preghiera di mercoledì a Rochester, nel New Hampshire, il sacerdote Paul Gausse ha detto che la madre gli ha chiesto una preghiera speciale: “Prega perché non diventi cinica. Non voglio odiare”. “Questa è una donna di profonda fede”, ha concluso il prete.

 

L’odio sarebbe un sentimento comprensibile per una famiglia che ha passato un calvario di due anni concluso nel più disumano dei modi. Senza contare il periodo di prigionia in Libia. Hanno dovuto sopportare la logorante incertezza dell’assenza, e poi i messaggi, le mail con le domande così personali che solo James avrebbe potuto rispondere correttamente, il test per capire che era ancora vivo; infine la richiesta di un riscatto da cento milioni di euro, talmente esosa da rivelarsi per quello che era, una crudele beffa, così come era un’orrenda illusione l’ipotesi di uno scambio di prigionieri. Quando chiedevano indicazioni su quali prigionieri volessero in cambio di James la risposta non arrivava mai. A portare la storia vicino e forse oltre alla soglia della sopportazione umana c’è la storia del fratello, soldato dell’aviazione americana i cui bombardamenti hanno suscitato la reazione brutale dello Stato islamico; le sue missioni all’estero hanno convinto James a dedicarsi al giornalismo di guerra, mestiere interpretato con quel particolare zelo che è scritto nel codice genetico del reporter di frontiera. Tutto questo dovrebbe condurre dalle parti della maledizione di un destino sadico, e invece la famiglia Foley ha l’aria addolorata e composta di chi ha il cuore ancorato altrove: “Non è difficile trovare ristoro, sapendo che James è fra le braccia di Dio”.

 

La vicenda della famiglia Foley è immersa in una fede che testimonia l’esatto rovescio dell’orrore commesso per mano di un dio del terrore che “non può essere un dio giusto”, come ha detto anche Barack Obama. Foley aveva studiato alla Marquette University, storico istituto gesuita del Wisconsin, e dopo la sua prigionia in Libia aveva inviato una lettera toccante per ringraziare delle preghiere che ogni giorno si levavano per la sua liberazione. E’ qualcosa di vagamente simile a un testamento spirituale. Racconta del rosario recitato ad alta voce in prigione assieme alla collega e compagna di cella, le Ave Maria contate sulle nocche, la commossa telefonata alla madre dopo mesi di blackout: “Hai sentito le nostre preghiere? –“Sì, le ho sentite”, ha detto rapidamente. “Poi ci ho pensato un attimo. Forse erano le preghiere che mi avevano tenuto a galla”. Nelle parole di allora c’era tutta la speranza e il sollievo del lieto fine, il ritorno a casa dopo essere stato catturato “da un regime che non aveva nessun interesse a liberarci”. Ma brillava anche l’idea della preghiera come liberazione non solo dalle sbarre e dalle pastoie, piuttosto una dimensione dell’essere: “Se non altro la preghiera è stata la colla che ha mi ha tenuto attaccato alla libertà, dapprima una libertà interiore, e poi il miracolo del rilascio”. In Siria il miracolo del rilascio non si è manifestato. Sulla liberazione interiore, però, si spalanca l’enigma umano e divino di James Foley, la cui risoluzione s’inizia a indovinare nella fede dipinta negli occhi addolorati della madre, e che lascia di stucco anche il Papa.