Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama (Foto Ap)

La responsabilità di agire

Richard Fontaine

Il presidente Obama autorizza i bombardamenti in Iraq. La superpotenza americana è accartocciata su se stessa, ma non può rinunciare. G.W. Bush voleva “porre fine alla tirannia”. Sembrano passati anni luce.

Autorizzando gli attacchi aerei in Iraq, il presidente Obama si ritrova davanti a una sfida: perorare la causa dell’azione statunitense davanti a una popolazione americana stanca di un forte coinvolgimento internazionale. Gli attacchi aerei potrebbero andare avanti per mesi, e qualsiasi soluzione adottata è “un progetto a lungo termine”. Obama conosce le preoccupazioni degli americani su un coinvolgimento militare ancor più impegnativo in Iraq. Mentre una scarsa maggioranza sembra sostenere le incursioni aeree contro gli obiettivi di Isis, rimane una stanchezza diffusa – sia fra democratici sia fra repubblicani – che non riguarda solo l’Iraq, ma coinvolge il mondo e le sue numerose sfide. Perché, si chiedono gli americani in numero sempre maggiore, tocca solo agli Stati Uniti spendere energie, soldi e a volte sangue per correggere le ingiustizie nel mondo, per far rispettare le regole? Dopo più di un decennio di guerre terribili in Iraq e Afghanistan, una crisi finanziaria accompagnata da alti livelli di disoccupazione e di deficit, il caos e l’instabilità portati dalla primavera araba, gli altri eventi globali e la sensazione che i nostri alleati abbiano approfittato della situazione per fin troppo tempo, molti americani pensano sia il momento di dire basta.

 

I loro leader la pensano allo stesso modo. Davanti alla richiesta crescente di attivismo internazionale – o davanti alla sua mancanza – è molto più comune sentire i politici americani criticare l’impegno all’estero – sia esso militare, economico o diplomatico – che incoraggiarlo. Al contempo, il presidente Obama ha enfatizzato la necessità di “costruire la nazione in patria”, e gli osservatori stranieri in Asia, Europa, medio oriente e altrove si preoccupano a gran voce del fatto che l’America sia sempre più chiusa in se stessa.

 

Dopo uno sguardo ai sondaggi più recenti, è difficile dar loro torto. Circa metà degli americani dice che gli Stati Uniti dovrebbero avere un ruolo meno attivo negli affari globali, rispetto al 14 per cento del 2001, e solo un quinto vorrebbe invece un ruolo più attivo. Un altro sondaggio mostra che la maggioranza dei repubblicani e degli indipendenti, e circa metà dei democratici, crede che gli Stati Uniti stiano già facendo “troppo” per aiutare a risolvere i problemi del mondo e che dovrebbero “farsi gli affari propri a livello internazionale, lasciando che le altre nazioni facciano del loro meglio da sole” – a crederlo è una percentuale più alta di qualsiasi altra negli ultimi cinquant’anni. La proporzione di americani che dicono che gli Stati Uniti sono eccezionali – “si ergono al di sopra di tutte le altre nazioni” – ha subìto un declino di quasi dieci punti in tre anni, e quattro quinti degli intervistati sono d’accordo sul fatto che: “Non dovremmo pensare così tanto in termini internazionali, dovremmo invece concentrarci maggiormente sui nostri problemi nazionali e costruire la nostra prosperità e la nostra forza qui in patria”. L’ultima volta che il consenso per queste risposte è stato così alto è stato subito dopo la fine della Guerra fredda.

 

Lo spirito nazionale si sta trincerando. L’impegno internazionale, specie militare, è visto come troppo costoso, troppo rischioso e troppo soggetto al fallimento. Le nazioni che hanno ricevuto finanziamenti o soldati americani spesso non sembrano essere in condizioni migliori di quando l’intervento è iniziato. Una nuova rivolta in Iraq, la crisi politica in Afghanistan, l’instabilità in Libia, l’insufficiente cooperazione in Pakistan e un leader più repressivo di Mubarak in Egitto non incoraggiano gli americani a sostenere maggiori investimenti statunitensi in progetti oltremare. Si pensa spesso che gli Stati Uniti abbiano l’abitudine di ficcare il naso negli affari di nazioni lontane delle quali sanno ben poco, senza ottenere molto in cambio delle buone intenzioni e degli sforzi enormi profusi. Forse, si dice, è arrivato il momento di ritirarsi un po’, di far portare parte del fardello ad altri e di iniziare a prendersi cura della propria nazione, tanto per cambiare.

 

L’impatto di queste idee è stato drammatico. Gli Stati Uniti hanno cercato di disimpegnarsi da Iraq e Afghanistan, l’Amministrazione ha messo più enfasi sul momento del ritorno a casa delle truppe piuttosto che su come proteggeremo i nostri interessi nazionali una volta che queste guerre avranno fine. La “sequestration” ha devastato il budget per la Difesa, imponendo tagli profondi e privi di logica che hanno minato la prontezza delle operazioni militari e gli investimenti nelle attrezzature necessarie a supportare la superiorità militare americana, rendendo il combattimento di guerre future più difficile e costoso. L’entusiasmo per la spesa in aiuti umanitari e sforzi diplomatici sta anch’esso svanendo velocemente, e l’Amministrazione ha decurtato i fondi per le attività di promozione della democrazia. Il sostegno agli accordi commerciali è calato ancor più velocemente. I precedenti appelli all’azione internazionale – dal “pagare qualsiasi prezzo, sostenere qualsiasi fardello” di JFK al desiderio di George W. Bush di “porre fine alla tirannia nel nostro mondo” – sembrano lontani anni luce dagli umori dei giorni nostri.

 

Storicamente, ovvio, è stata la percezione della minaccia a guidare l’impegno americano all’estero, e non fanno eccezione gli appelli di JFK e di Bush, arrivati rispettivamente al culmine della Guerra fredda e di quella al Terrore. Oggi, quando l’èra dell’11 settembre lascia il passo a un nuovo periodo nel quale le nostre manie fiscali appaiono più pericolose di una manciata di dirottatori di aerei, è difficile per qualsiasi leader politico raccogliere consenso attorno a un’America vigorosamente impegnata. Eppure, è proprio ciò che è necessario oggi.

 

Il canto delle sirene del disimpegno è fuorviante e pericoloso, per una semplice ragione: il mondo non permetterà che l’America si ritiri dal suo ruolo di leader mondiale senza costi reali e significativi. C’è in ballo il tipo di mondo nel quale ci auguriamo di vivere, e l’ambiente globale che permetterà alla prosperità, alla sicurezza e agli ideali americani di fiorire. Per mettere al sicuro l’America – la patria, la politica, i valori economici che rendono gli Stati Uniti così attraenti – l’America deve continuare a sostenere l’ordine internazionale regolamentato che ha funzionato così bene nei settant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

 

Questo ordine ha fornito un ambiente nel quale gli Stati Uniti e molte altre nazioni hanno raggiunto una crescita economica senza precedenti, nel quale è stata virtualmente sradicata la guerra fra grandi potenze, e nel quale le libertà individuali sono fiorite. Eppure tale ordine non è in grado di sostenersi da solo. Dipende dal potere – nel mondo d’oggi, dal potere americano e alleato – sostenerlo e farne rispettare le regole. A differenza del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, quando la Gran Bretagna poté recedere dal suo ruolo tradizionale di fornitore di beni pubblici globali, permettendo agli Stati Uniti di farsi avanti, al giorno d’oggi non vi è alcuna alternativa possibile alla leadership americana. Le nazioni che condividono i valori americani spesso difettano delle risorse e della volontà politica necessarie per essere leader “from the front”; le nazioni che le possiedono – come la Cina e la Russia – sembrano più interessate a riscrivere le regole dell’ordine internazionale a loro vantaggio che a rafforzare quelle già esistenti.

 

La dura verità è che la sicurezza internazionale non sopporta il vuoto di potere. Se gli Stati Uniti abbandonassero il proprio ruolo di sostenitore primario dell’ordine internazionale, altre potenze – o le forze del caos – si farebbero avanti per colmare il vuoto. Il prezzo da pagare sarebbero esattamente quei benefici – prosperità, sicurezza e libertà – che l’ordine avrebbe dovuto migliorare.

 

Qui giace una significativa sfida politica. I costi dell’impegno – in termini di vite e di dollari spesi, di attenzione sugli affari globali piuttosto che su quelli domestici, di energia destinata a risolvere problemi stranieri apparentemente irrisolvibili – sono chiari e viscerali. Ma i costi del disimpegno sono difficili, e forse impossibili, da quantificare prima che incorrano. La storia, la geografia e la realtà contemporanea suggeriscono che, per quanto sia grande il desiderio americano di ritirarsi dal mondo, pagheremmo un prezzo notevole per poterlo fare in questo mondo sempre più interdipendente – dal rallentamento della nostra crescita economica, all’aumento della nostra vulnerabilità alle minacce emergenti.

 

La tesi a favore della leadership globale americana – i benefici di un ordine internazionale basato sulle regole e sostenuto dal potere statunitense – è complicata e piena di contraddizioni. Non è convincente come gli spettri del comunismo e del terrorismo nell’animare l’attivismo americano. I leader politici che condividono tale visione avranno bisogno, di conseguenza, di tracciare chiare connessioni a preoccupazioni più prettamente domestiche – l’impatto sulla creazione di posti di lavoro, di flussi energetici, di prezzi e salari, di sicurezza nazionale. Dovrebbero anche iniziare a immaginare un brand durevole per l’internazionalismo americano. Tale programma dovrebbe includere un sostegno deciso alla Trade Promotion Authority e a patti come la Trans-Pacific Partnership e la Transatlantic Trade and Investment Partnership, che migliorerebbero la prosperità economica statunitense e la nostra influenza strategica nell’Asia Pacifica e in Europa. Questo affronterebbe i problemi dati dai costi alle stelle per benefit militari e dalle clamorose inefficienze nel dipartimento della Difesa per reinvestire in prontezza difensiva e future capacità di combattimento. Dovrebbe sostenere robusti livelli di finanziamento per diplomazia e cooperazione. Dovrebbe enfatizzare la relazione di lungo periodo fra l’America e l’Iraq e l’Afghanistan per proteggere gli interessi americani in tali aree, e riposizionare la promozione dei diritti umani e dei valori democratici al cuore della politica estera statunitense.

 

Più di qualsiasi policy particolare, però, un impegno americano nuovamente energico si manifesterebbe come una disposizione – un atteggiamento che evita di interpretare gli interessi nazionali in modo troppo limitato, che persegue attivamente un illuminato interesse personale e che crede nella promozione dei valori universali. In questi giorni diffidenti e sospettosi, tale approccio potrebbe sembrare fuori posto e non al passo con gli umori nazionali. Ma non esiste alcuna scusa che permetta all’America di ritirarsi dal mondo. La protezione della nostra sicurezza, della nostra libertà, del nostro dinamismo economico in questo mondo tumultuoso richiede che gli Stati Uniti rimangano impegnati. La leadership globale americana potrà anche non essere popolare politicamente al giorno d’oggi. Ma mai è stata tanto importante.

 

Richard Fontaine e Michèle Flournoy
Presidente e ceo
del Center for a New American Security

(traduzione di Sarah Marion Tuggey)