David Plouffe (foto Ap)

Tecnopolitica

Uber assume il cantore di Obama per riuscire dove l'algoritmo fallisce

David Plouffe ha creato un’epica elettorale irresistibile. Ora porta il suo metodo nella Silicon Valley.

New York. La parola magica –  e, come tale, abusata – delle campagne elettorali di questa epoca è narrazione. Il candidato vincente è quello che svolge la sua vicenda umana e politica in forma di racconto, proiettando la sua rappresentazione attraverso un plot che può essere diffuso agli altri e persino proclamato con trasporto. I metodi numerici, quantitativi, sono subordinati alla costruzione di una struttura narrativa solida, da riempire poi di concetti che variano a seconda delle circostanze e delle sensibilità. Cambiamento, uguaglianza, rottamazione: tutto può funzionare se la narrazione regge. David Plouffe è stato il narratore in chief della campagna elettorale di Barack Obama nel 2008, “eroe non celebrato della migliore campagna politica della storia degli Stati Uniti”, come disse il presidente appena eletto, per una volta senza esagerazioni retoriche.

 

Plouffe è stato appena assunto da Uber per fare alla compagnia che combatte gli istinti corporativi dei taxi di mezzo mondo quello che ha fatto a un semisconosciuto senatore dell’Illinois con tanto potenziale da raccontare. Travis Kalanick, ceo di Uber, lo ha nominato vicepresidente per la policy e la strategia, spiegando che “la nostra missione è sorprendentemente diventata controversa” e “questa controversia esiste perché siamo nel mezzo di una battaglia politica e il candidato è Uber”. A Plouffe spetta il compito di “assicurarsi che la nostra storia sia raccontata” e che il racconto “produca gli esiti giusti”. Uber in questo momento non ha bisogno di uno stregone dei big data che faccia elisir con gli algoritmi, ma di uno storyteller che spieghi al mondo che i servizi di Uber funzionano, creano posti di lavoro, diminuiscono il numero di incidenti e i casi di guida in stato di ebbrezza. Deve spiegare, insomma, che Uber è dalla parte dei buoni. Di tutto questo il “Big Taxi Cartel” – formulazione che evoca i grandi gruppi d’interesse, dal petrolio ai farmaci: ecco la narrazione – non si cura. Plouffe dovrà dirlo non solo ai governi e ai regolatori, ma all’uomo della strada, anche quello che non salirà mai su una macchina di Uber eppure coltiverà in qualche modo un pregiudizio positivo verso la mission virtuosa dell’azienda.

 

Le cronache politiche e lo stesso libro di Plouffe, “The Audacity to Win”, raccontano nel dettaglio quanto il ragazzo del Delaware con una laurea in Scienze politiche ottenuta quando Obama era già alla Casa Bianca abbia lavorato in modo maniacale sul conteggio dei voti distretto per distretto. Fra gli strateghi elettorali la vittoria alle primarie dell’Iowa contro Hillary Clinton è un caso di scuola. Il passaggio dal conteggio del numero dei voti a quello dei delegati è entrato nel protocollo. Ma il segreto di Plouffe, come tutti i segreti, è molto più semplice: “Quello che abbiamo cercato di fare è di far parlare fra loro i vicini di casa, i colleghi, gli amici, le famiglie”. Nel 2008 non si poteva non parlare di Obama. Era il protagonista della più grande serie televisiva mai prodotta, non si poteva non commentare l’ultimo colpo di scena, l’ultima batosta a Hillary o McCain. I conti, gli algoritmi, i social, gli istogrammi, il porta a porta, le telefonate erano soltanto conseguenze e riflessi di un racconto avviato.

 

All’uomo che ha succeduto Plouffe nella campagna del 2012, Jim Messina, è bastato un lavoro di manutenzione ed efficientamento, senza cambiare spartito: nel quartier generale hanno creato “the beast”, un misto di risorse umane ed elettroniche per portare alle urne gli elettori già inclini a votare Obama. I conti dicevano che non c’era bisogno di convincere nessun repubblicano o indeciso per battere Mitt Romney, e così è andata. Dal punto di vista strategico è stata una vittoria di rendita, e il capitale iniziale è stato in larga misura Plouffe a crearlo, componendo l’irresistibile racconto di un candidato che avrebbe inaugurato una nuova éra americana. Le aziende della Silicon Valley, il cui core business è intimamente legato alla distruzione e al superamento di vecchi modelli commerciali, hanno bisogno di narratori simili per convincere il mondo che i loro competitor sono vecchi carrozzoni di un’altra epoca, zavorra da cui liberarsi per volare alto. Per fare questo non bastano orde di smanettoni in infradito o di lobbisti in cravatta. Serve qualcuno che faccia parlare, che crei un’inerzia favorevole, un’inclinazione collettiva. Come è successo con Obama. L’importante è non ricordare che dentro quel pacchetto meravigliosamente confezionato c’era merce avariata, come l’America ha potuto notare negli ultimi sei anni.

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