Belle le cure degli anni Cinquanta. Siamo tornati agli anni Venti, possiamo abbronzarci soltanto per sbaglio, mentre navighiamo distratti verso un’isola

Tintarella di luna

Annalena Benini

Ascesa e caduta della pelle scura, da giardino dell’Eden a gesto sconsiderato, il senso dell’estate per le creme e la noncuranza di mia nonna, la più abbronzata della spiaggia

Mia nonna era sempre la più abbronzata della spiaggia. Dagli anni Settanta (da quando io me la ricordo al sole, ma lei c’era da molto prima) al nuovo millennio, finché è stata lì, con il lettino in prima fila rivolto verso il mare, nessuno è mai riuscito ad abbronzarsi più di lei. Scendeva in spiaggia all’inizio di giugno, nelle ore proibite, quando le madri corrono a casa con i bambini riparandoli dal sole con ombrellini e asciugamani, e risaliva a fine settembre, a volte ottobre: non si è mai spalmata una crema, non si è mai girata a pancia in giù per abbronzarsi l’altra metà del corpo, ed è entrata in mare solo in circostanze eccezionali.

 

Io avevo il segno bianco degli occhiali da sole, mi ero già scottata molte volte, ero stata sgridata da mia madre e da mio padre insieme e confinata all’ombra, cosparsa di protezione totale (“non hai la pelle della nonna Gianna, non puoi stare al sole, sempre la stessa storia, vuoi morire?”: la morte era già, sul finire degli anni Ottanta, strettamente connessa con un’abbronzatura scriteriata), sognavo l’uniforme color cuoio di mia nonna, che faceva contrasto con il costume intero verde smeraldo, ma temevo che il sole le avrebbe incenerito all’improvviso tutto  il corpo, se continuava a non mettersi la crema e a non bere mai nemmeno un bicchier d’acqua: così le offrivo, dalla mia prigione d’ombra,  un po’ di crema (quella che portavo di nascosto in spiaggia e mettevo al posto della protezione totale, con  senso di colpa: una crema con il disegno di una noce di cocco sul barattolo, qualcosa con la scritta “tropical”, sicura strada verso la morte).

 

Lei ne accettava pochissima, la prendeva con la punta delle dita e l’aria disgustata, se la picchiettava sulla fronte e sul mento, ma a metà operazione aveva già esaurito la pazienza e si risdraiava così, con qualche baffo bianco di crema tropical ancora intero. Disprezzava le creme solari, disprezzava quelli che si scottano, quelli che stanno lì a cercare di abbronzarsi, girandosi su un fianco, alzando le braccia sopra la testa, slacciandosi il costume per evitare il segno bianco, e infine considerava la forma più bassa di vita umana quelli che, tre settimane prima di andare al mare, cominciano a prendere carote in pillole per attivare la melanina. Mia nonna non ha mai cercato di abbronzarsi e non ha mai pronunciato la parola melanina, lei semplicemente stava sdraiata a leggere biografie di Anna Bolena, oppure Eva Tremila, e nelle ultime estati stava soprattutto in silenzio a guardare il mare: non si sarebbe mai seduta all’ombra semplicemente perché non concepiva l’esistenza dell’ombra, ma il sole l’avrebbe trovata anche se si fosse nascosta dentro casa con le tapparelle abbassate.

 

Fingeva di non accorgersi di quella abbronzatura prodigiosa (mia madre le diceva: “Sei così nera che non ti si vede più” e lei alzava le spalle), accoglieva il color bronzo come una condizione ovvia dell’estate, ma tutti noi visi pallidi o lentigginosi con protezioni solari imposte e necessarie, noi con l’eritema, il prurito, i doposole, il betacarotene sapevamo che, quando era così abbronzata, come una nonna di Pocahontas con il rossetto  (un po’ sbavato, messo probabilmente allo stesso modo in cui prendeva il sole, senza lo specchio, senza badarci), la nonna era molto più felice, ci avrebbe portato a mangiare la pizza, e avrebbe comprato qualche orribile borsa dagli ambulanti sulla spiaggia, a cui faceva mille domande sulla famiglia in Senegal: gli ambulanti si accoccolavano accanto al suo lettino, appoggiavano le borse e le collane, lei li interrogava per ore e credeva sempre a tutte le risposte. Era nata nel 1923, quando forse l’abbronzatura era ancora disdicevole, significava lavoro nei campi, fatica, sudore, ma lei si è sempre infischiata di ciò che era o non era disdicevole, anzi credo che le piacesse, di tanto in tanto, essere un po’ disdicevole, così bella e abbronzata com’era.

 

E poi già nel 1925 Jay Gatsby era perdutamente abbronzato dentro le camicie inglesi, e Zelda Fitzgerald, la farfalla che bruciò le sue ali, amava nuotare, tuffarsi, sdraiarsi al sole e lasciarsi schiarire i capelli già biondi: essere abbronzati significava essere un po’ folli, avventurosi, andare sulla Costa Azzurra a bere vino ghiacciato, significava viaggiare, pescare come Ernest Hemingway, indossare magliette a righe come nel “Giardino dell’Eden”, e avere conversazioni intense in cui si fingeva di prestare attenzione soltanto alle parole, ai libri, alle cose importanti, e non invece all’effetto che il vestito bianco dava alla pelle scura, e alle spiagge lontane dove nuotare senza il costume (per potersi abbronzare completamente, fino a scomparire). Nessuno si scottava mai. L’unico che aveva il diritto di avere il viso rovinato e spellato dal sole era il vecchio Santiago de “Il vecchio e il mare”, e forse qualche maggiore che aveva camminato nel vento e nella neve e amato una donna ormai perduta.

 

Le belle ragazze, le prime mogli, le amanti con cui parlare d’amore e di abbandono ai caffè all’aperto di Parigi sul finire dell’estate, non potevano avere né rossori né segni bianchi né integratori nella borsa. Hemingway avrebbe approvato mia nonna che non si è mai scottata in tutta la vita, non si è mai spellata, non ha mai dovuto fare impacchi la sera e non ha mai avuto bisogno del cappello né degli occhiali da sole (né di calze d’inverno), ma solo di cozze, vongole, vino bianco freddo e un po’ di rossetto sbavato. Il contrario di Elsa in “Bonjour Tristesse” di Françoise Sagan, che si arrossava e spellava con atroci sofferenze, anche se si impegnava e cercava di coprire i segni delle ustioni con il trucco, venendo per questo disprezzata dal suo amante e dalla figlia di lui, Cecilia, invece perfettamente cinici e dorati dal sole.

 

Non ricordo niente di quel romanzo, tranne che Cecilia era molto magra e molto antipatica e aveva però un’abbronzatura fantastica senza segni del costume, mi sembrava quello un tratto di superiorità anche letteraria. Essere chiazzati e doloranti era un indizio di rozzezza e di stupidità, ora è soprattutto un motivo per venire trasportati in elicottero in ospedale, almeno da quando il lato frivolo è stato sostituito dal lato medico, e il sole è diventato come le sigarette, malsano, pericoloso, scorretto, imbruttisce, fa invecchiare, va preso con moderazione, paura, senso del peccato.

 

Senza nessuno di questi stati d’animo andavo al mare con le amiche, raggiunta l’età per sottrarmi alle imposizioni di linee d’ombra, ed eravamo molto felici di scottarci. Euforiche, perfino, speravamo nel temporale che avrebbe reso il cielo ancora più terso, chiedevamo all’ozono di bucarsi lì, proprio sopra le nostre teste. Ci sembravano, quelle striature, quel dolore alla schiena, quel colore rosso scarlatto, perfino il segno bianco del filo del walkman, un atto coraggioso (scottarsi e fumare, contemporaneamente) e soprattutto l’inizio di una grandiosa abbronzatura. Perché quel viola cosparso di bollicine, quelle ginocchia in fiamme sarebbero diventati, dopo le cure e le aspirine e la febbre, qualcosa di simile a un colorito un po’ scuro.

 

In poche ore, senza nemmeno toglierci le scarpe (forse era questa la cosa più folle: una fila di liceali in bikini minuscolo e grosse scarpe da ginnastica fumanti), svuotando il barattolo blu di Nivea, se fossimo riuscite a restare immobili sotto il sole, girandoci soltanto quando sentivamo odore di carne bruciata, avremmo ottenuto l’abbronzatura di un’estate intera, si trattava solo di tornare a casa e nascondersi subito in bagno, e mettersi cipria chiara, truccarsi da Pierrot per non far notare ai genitori quelle mostruose scottature, quella faccia gonfia del sole preso a mezzogiorno dopo un intero inverno di pianura. I genitori se ne accorgevano lo stesso, era impossibile non accorgersene, e si infuriavano: mio padre diceva che ero una deficiente e io dicevo che no, era molto strano perché mi ero messa la protezione quindici (la protezione quindici negli anni Novanta era ancora una protezione molto seria, alta, degna di rispetto, una protezione che non avrei quindi mai usato davvero, per paura di metterci quindici volte di più prima di riuscire a scottarmi, al massimo si poteva usare la protezione quattro, e già sembrava un’esagerazione, una perdita di tempo, una cosa da pallidi apocalittici, come quei milanesi che arrivavano certe volte ad agosto, con i bambini di un bianco abbagliante, sembrava non avessero mai visto la sabbia, o il mare, passavano le vacanze sotto l’ombrellone, con aria impaurita, in maglietta accollata, e appena mettevano un braccio al sole si vedeva una madre bianchissima e ricoperta di chiazze rosse che scattava in piedi, dalla sdraio all’ombra, e correva a spalmare quei bambini di crema gialla, e vorrei aggiungere solo che quei bambini facevano anche il bagno, molto a riva, con la maglietta ed erano considerati dei paria.

 

La crema quindici, adesso, è una specie di scherzo, o un azzardo consentito alle pellacce dure e già abbronzate: non si può nemmeno prendere in considerazione l’idea di mettere a un figlio al mare una protezione inferiore alla cinquanta, e comunque deve essere cinquanta “+”, che va rimessa dopo il bagno, facendo attenzione a farla assorbire bene perché ci sono bambini che vanno in giro per la spiaggia con la schiena scarlatta e al centro il segno di una grande mano bianca, e quella è la mano del genitore distratto, che non ha spalmato bene; ma ogni volta che vedo il segno “+” accanto al numero cinquanta mi sento rassicurata: dev’essere il più dell’infinito, significa che è cinquanta ma è come se fosse cinque milioni, cinquanta milioni, cinquecento milioni di protezione contro le scottature, una promessa di salvezza dal buco nell’ozono e dall’elicottero verso l’ospedale).

 

Quindi, dopo avere visto la mia faccia assurdamente ustionata che io avevo cercato di camuffare con i capelli e la cipria, mio padre diceva: è inutile, ho una figlia deficiente, io dicevo ma no, non può essere, mi sono messa la crema quindici; mia madre, tra l’altro abbronzatissima, quasi come mia nonna, nonostante la protezione totale, scuoteva la testa e diceva: vuoi morire?, e io, striata e con sempre addosso le scarpe da ginnastica fumanti, fuggivo verso la libertà di mostrare a tutti, là fuori nel mondo il sabato sera, quanto mi ero abbronzata. Molti anni dopo, quasi un secolo, nella parte di vita e di estate in cui la protezione quindici ha la noce di cocco sul barattolo, perché è considerata bassissima protezione, e ha la noce di cocco ma molti ci vedono un teschio con le ossa incrociate, un medico mi ha detto che l’abbronzatura è il male assoluto e che non basta l’ombra, non basta la crema, non basta il cappello, bisogna restare bianchi e puri, e anche d’inverno, quasi anche di notte, usare la protezione totale. Ha aggiunto: lei ha esagerato, ed è stato quello il miglior momento della visita, un momento di tenerezza, in fondo, è stato come sentirsi dire, dopo vent’anni: ho una figlia deficiente.

 

Adesso che, di nuovo, come quando nacque mia nonna, nel 1923, essere abbronzati è non solo disdicevole, ma anche irresponsabile, ora che teoricamente vince, al mare, chi ha le falde del cappello più larghe e la pelle più bianca, i milanesi abbaglianti di quando ero ragazzina, i paria della spiaggia, quelli che mettevano sulle labbra la crema gialla da ghiacciaio per stare all’ombra e con cui non avrei mai scambiato nemmeno una parola, nemmeno una partita a ping pong, hanno avuto il loro riscatto sociale. Possiamo abbronzarci soltanto per sbaglio, a nostra insaputa, mentre navighiamo distratti verso un’isola, e possiamo scottarci, di nuovo, solo se siamo Santiago de “Il vecchio e il mare” e rattoppiamo le vele della barca con i sacchi della farina. L’abbronzatura non può mai essere uno scopo, ma solo un accidente occorso durante un tuffo dagli scogli, un corollario della vita selvatica.

 

Ma ci si può togliere il costume, a un certo punto, se non c’è nessuno, o se anche gli altri se lo tolgono, come Catherine nel “Giardino dell’Eden”, come tutte le ragazze che negli anni Novanta cercavano, incoscienti, scottature uniformi, e che non si tuffavano in mare per paura che il sole non riuscisse a penetrare l’acqua? L’evoluzione dell’abbronzatura prevederebbe il divieto di costume da bagno, una piacevole estate in montagna a coltivare la vita interiore con i pantaloni lunghi e la crema gialla sulle labbra e sul naso, passeggiate con la testa all’ombra, o dentro un libro nei pomeriggi in campagna. Quindi, finalmente, togliersi il costume è di nuovo tornato a essere un gesto di ribellione, una cosa proibita non dal pudore ma dalle leggi della medicina e della vita sana, è quindi il massimo del coraggio e del vivere pericolosamente. Mia nonna, la donna più abbronzata della spiaggia e forse del mare Adriatico non l’ha fatto mai (solo un’altra signora, naturalmente sua amica, poteva competere in abbronzatura, ma lei passava gli inverni in Thailandia dal figlio fricchettone e quindi era avvantaggiata.

 

Mia nonna un po’ soffriva, quando la signora arrivava dalla Thailandia carica di fasce per capelli e bikini colorati, ma non lo avrebbe mai ammesso: a vederle, ma erano così nere che quasi non si vedevano, una accanto all’altra nella spiaggia deserta all’ora proibita di pranzo, al sole, la fricchettona che fumava strane sigarette e beveva whisky e mia nonna che fissava il mare mentre le faceva l’interrogatorio, e a volte accettava un whisky, sembravano due divinità africane, o due cowboy in costume da bagno, e spesso si addormentavano, soprattutto se avevano bevuto entrambe whisky alle due del pomeriggio), lei non aveva bisogno di togliersi il costume perché il sole aveva verso mia nonna un tale rispetto da abbronzarla anche attraverso il costume intero verde smeraldo e attraverso la plastica del lettino, visto che girarsi a pancia in giù era escluso.

 

Così, ogni volta che ancora mi scotto e fingo con me stessa di essermi messa la protezione cinquanta mentre so benissimo che non è vero, perché io la crema protettiva la odio, e in fondo anche Elsa, la stupida Elsa di “Bonjour Tristesse”, dopo mille scottature riusciva ad abbronzarsi decentemente e a sembrare meno scema, ogni volta che qualcuno dice che non si può stare al sole dopo le otto del mattino, penso alla mia nonna cowboy e dea africana insieme, che d’inverno diventava triste (ma mai pallida) perché non poteva più stare lì, sdraiata sul lettino davanti al mare, a chiacchierare coi raggi del sole amici suoi.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.