Toh! Il vicino con le camicie colorate che in pizzeria lascia sempre la mancia è ricercato per strage. Nell’immagine, Al Pacino in una scena del film “Scarface”

Narcos in Riviera

Angela Nocioni

Vita violenta di Domenico Mancuso, trafficante di cocaina con 132 omicidi sulla coscienza acciuffato a Imperia, dove faceva una vita tutta riciclaggio e chiesa.

Toh! Il signore gentile e paffuto del piano di sopra era ricercato dall’Interpol per 132 omicidi. Addirittura per strage. Il vicino con il balcone pieno di fiori! In Colombia lo vogliono processare per una serie di atrocità, compreso un massacro di gente inerme. Dicono che arrivò in un villaggio della selva con camion carichi di 200 uomini verso sera, mentre i contadini tornavano dalle piantagioni. “Musica al massimo, che la festa sta per cominciare”, disse. Fece inginocchiare tutti e ordinò di sparare. Riacciuffò un bambino, l’unico riuscito a sgattaiolare via tra le tute mimetiche dei paramilitari: “Da qui non esce vivo nessuno”, disse prima di fargli sparare. 

 

Era lui. Quello con le camicie colorate che in pizzeria lascia sempre la mancia e quando è andato in pellegrinaggio a Pietrelcina ha anche riportato la statuetta di Padre Pio a don Giorgio, il parroco di Castelvecchio. In un giorno solo, nel 1999, fece uccidere 34 persone inginocchiate a braccia alzate mentre piangevano e lo supplicavano pietà. Può succedere, a volte, che una notizia data nelle brevi di cronaca, disegni all’improvviso una geografia nuova e sorprendente. A guardar bene, la Liguria non è poi così lontana dalla selva colombiana.

 

Imperia, viale Europa numero 26. Domenico Mancuso, 49 anni, fino a mercoledì della settimana scorsa viveva in una palazzina dalle ringhiere bianche sotto il santuario di Santa Maria Maggiore di Castelvecchio. Andava a messa quasi tutti i giorni e si caricava la Madonna in spalla a ogni processione. Disponibilissimo anche per la lavanda dei piedi. L’ha raccontato il parroco.
Aveva un passaporto italiano in regola e la carta d’identità valida per l’espatrio. Ogni tanto andava a Monte Carlo, stava per comprare un hotel a cinque stelle. Cercava appartamenti in riviera. Ne doveva trovare tanti, i soldi dell’export di coca non sono pochi. Sono venuti a prenderlo agenti con il viso coperto da cappucci neri. L’ha portato via la Guardia di Finanza. Gli elicotteri l’hanno scortato fino a Genova, finché non è entrato dentro il carcere di Marassi.

 

Il suo nome intero è Domenico Antonio Mancuso Hoyos. Uno dei narcotrafficanti più ricercati del mondo. Il capo del blocco Catatumbo, gruppo paramilitare delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).

 

Squadracce feroci, con rapporti complessi e mai del tutto svelati con settori potenti delle istituzioni colombiane, le Auc sono state l’esercito irregolare d’estrema destra con teschi e mimetica, in guerra per il controllo della coltivazione della coca con altri gruppi fotocopia e con i guerriglieri marxisti delle Farc e delle Eln, a loro volta in guerra con lo stato colombiano e a loro volta di una violenza bestiale con la popolazione civile. L’ideologia, nella contesa, è ormai ferraglia dismessa. La guerra, da anni, nella selva colombiana serve ad aggiudicarsi fette di mercato nel narcotraffico.

 

A far arrivare nel Mediterraneo i carichi ci pensa poi la ’ndrangheta. E’ lei che fornisce i nuovi broker. Ritenuti al momento più efficienti, pare, dei mafiosi siciliani. Più difficili da infiltrare, molto bravi nel riciclaggio. La mafia siciliana resiste ovviamente e fa i suoi affari, ma non è più la regina del mercato come ai tempi di “Pizza Connection”, quando Cosa nostra imperava incontrastata e il grande business stava nel viaggio in direzione inversa: dai laboratori chimici che raffinavano eroina in Sicilia fino alle grandi piazze americane. La ’ndrangheta si è infilata nelle pieghe del giro vorticoso d’affari e si è fatta spazio, in silenzio. Ha intuito negli anni Ottanta che il futuro era la cocaina, non l’eroina. E s’è piazzata, inabissandosi. Dispone di molti mezzi, ha gente ovunque dove si produce coca, dalla Colombia all’Ecuador. Stringe alleanze con i nuovi cartelli, si muove come un pesce nell’acqua tra i narcos locali che la trovano affidabile perché chiusa, impenetrabile, arcaica. I colombiani valutano la puntualità dei pagamenti, il professionismo nel trasporto. I carichi arrivano dove devono arrivare, quando devono arrivare. Non si perdono, non ritardano. Vuol dire che la valutazione delle rotte – necessario cambiarle in continuazione – è rapida e azzeccata. Se la frontiera col Venezuela non è più coperta bisogna capirlo subito, saltare il passaggio, passare da sud. Sapere dove arrivare in Perù per poi passare in Argentina, se è meglio in Brasile e piazzarsi tranquilli nei porti del sud del continente. Bisogna saper scegliere i carichi di copertura e superare tutti i controlli, nei porti sudamericani e nel Mediterraneo. Anche perché i narcos fornitori non tollerano errori, tantomeno sgarri. A volte esigono ostaggi volontari. Si tengono un broker, un interno, in garanzia del carico finché non arriva a destinazione. E’ una pratica imparata dai vecchi cartelli di Cali e di Medellin. La garanzia è merce umana, l’ostaggio è una cambiale.

 

La ’ndrangheta pare abbia mostrato di sapersela cavare. Riesce a essere invisibile in Aspromonte, ma anche a New York. Liquida, veloce, duttile. Ha massimizzato le opportunità, minimizzato i rischi. Feroce, ma attenta a essere impercepibile. Ormai son le ’ndrine calabresi le prime venditrici all’ingrosso in Europa. Riescono a sopravvivere come un Idra, se salta una testa non muore l’organismo. La ferita cicatrizza e spuntano ’ndrine nuove. Difficile anche infiltrarle con successo, perché è complicato fare danni irreparabili all’intera organizzazione, non si riesce a colpire al cuore.

 

In perfetto equilibrio tra le due sponde dell’oceano stava Domenico Mancuso. Italianissimo, dal ’92 è iscritto all’Aire, il registro dei cittadini italiani residenti all’estero, nel comune di Casal Velino, in provincia di Salerno.

 

L’Interpol lo stava cercando da otto mesi. Ma lui a Imperia è arrivato nell’ottobre del 2012, con passaporto valido dal 2006 al 2016 rilasciato dalla nostra ambasciata a Bogotá. Anche la carta d’identità al comune di Imperia ha chiesto di recente. E, verificato che il domicilio era esatto, gliel’hanno data senza problemi. “L’anagrafe del comune non ha accesso alla banca dati della questura” – ha spiegato il sindaco di Imperia, Carlo Capacci, al Secolo XIX di Genova. “Il nostro compito è quello di rilasciare il documento di identità sulla base di quanto presentato e nel caso del Mancuso si è trattato di regolare passaporto italiano. Ovviamente sono state fatte le normali verifiche sulla residenza. La copia del cartellino viene poi inoltrata alla questura e gli elenchi periodicamente in prefettura”.

 

Tanto a posto era, il super narco della porta accanto, che s’era potuto comprare persino un’auto usata. Intestata a suo nome. Latitante risulta da giugno, prima era solo un ricco signore con delle buffe camicie che diceva sempre “grazie, faccio da solo” al cameriere che gli apriva la porta al ristorante.

 

Di nomi di battaglia ne ha avuti molti. Lucas, Alejandro, David. Agli inizi faceva il contabile della coca. Una quindicina di anni fa la zona colombiana di sua competenza era stata affidata al gruppo dei “Los Azules”, gli Azzurri, sospettati dopo pochi mesi di rubarsi parte del denaro. Domenico Mancuso fu incaricato di registrare i profitti del traffico nella regione. Riceveva un fisso mensile in cambio del report dettagliato che mandava ai finanziatori a Córdoba. José Bernardo Lozada, alias “Mauro” nelle Auc, ha raccontato in un’udienza a Bogotá: “L’ho conosciuto, non sapevo il suo vero nome e non era il caso di domandarglielo, ma ricordo bene che lui era responsabile della revisione dei conti degli Azules e si occupava anche delle nostre spese e del denaro che maneggiavamo noi”.

 

Testimonianza confermata da Jorge Iván Laverde Zapata, alias “El Iguano”, di un altro fronte delle Auc, che dice di essersi riunito almeno sei volte con Domenico per la revisione dei conti del gruppo. Poi c’è una fila di ex para che lo accusa di aver ordinato assassinii. “Ci ha dato lui l’ordine per vari omicidi che poi noi abbiamo eseguito in città”, ha detto Edilfredo Esquivel Ruíz, alias “El Osito”, l’Orsetto. La stessa frase ha pronunciato Albeiro Valderrama Machado, alias “Piedras Blancas”, Pietre Bianche.

 

Ma a parte l’ordinaria amministrazione del pianeta narco, l’incarico importante di Domenico Mancuso, il suo ruolo politico, è stato fare da ponte di comunicazione tra settori dell’esercito regolare colombiano e “los paras”, i paramilitari delle Auc. Quando, nel dicembre del 2004, il governo colombiano avviò il “processo di smobilitazione collettiva” – una sorta di trattativa per far tornare i paramiliari alla vita civile – Domenico Mancuso scelse di non aderire.

 

Lui non è un paramilitare qualunque, anche tra i capi ha uno status di lusso. E’ il cugino di Salvatore Mancuso, comandante supremo delle Auc, narcotrafficante potentissimo, con un esercito informale di 15 mila uomini ai suoi ordini, regista del lavaggio dei profitti dell’export di coca, ricercato per anni dai detective americani della Drug enforcement administration (Dea). Non l’hanno mai preso. Si è consegnato alle autorità colombiane dopo una lunga trattativa. E’ stato estradato nel 2007 negli Stati Uniti prima che riuscisse a eclissarsi nell’azienda agricola in Toscana dove contava di organizzare il suo “buen retiro”. Già era avviata l’importazione di bottiglie di Brunello di Montalcino e anche quella di vestiti di marca. Finivano in una cinquantina di belle vetrine illuminate a Bogotá, tutti negozi di sua proprietà, per la gioia degli appassionati locali del made in Italy.

 

Estradato insieme ad altri 13 capi narcos, tra cui Diego Fernando Murillo detto “Don Berna” erede di Pablo Escobar a Medellin, nel 2009 Salvatore Mancuso è stato condannato a 40 anni di reclusione e a pagare 3.000 salari minimi mensili alle famiglie di alcuni dei trucidati dal suo esercito irregolare. Ha detto di voler collaborare. Ha raccontato alcune cose agli investigatori. Ha negato più volte che Domenico facesse parte delle Auc, lo ha protetto a lungo. Poi nel 2012, in un’udienza a Bogotá, spiegando di aver paura per l’incolumità della sua famiglia, ha detto anche che il cugino decise di entrare nelle Auc dopo un attentato guerrigliero contro suo padre, avvenuto nell’azienda agricola di sua proprietà “La Madera”. Ha detto poi che Domenico non aveva aderito al piano di disarmo a causa di “pressioni dagli alti comandi militari che volevano evitare che aprisse bocca”. Fu scelto come anello di congiunzione tra l’olimpo militare e le squadracce, con mediazione della politica ufficiale, perché era una persona di fiducia di Salvatore e perché non era estraneo al mondo delle Forze armate. Domenico è colto, ha studiato in Cile, è passato per la scuola ufficiali e poi per la scuola navale.

 

La sua testimonianza sarebbe importante per sapere chi, tra i politici e i militari regolari colombiani, facilitò l’ingresso delle squadracce in alcuni dipartimenti del paese per fare il lavoro sporco che era meglio non facesse l’esercito e per occuparsi del business della coca. Tanto importante che forse gli conviene star zitto.

 

“Quando ci fu l’incursione al Catatumbo fu fatta frontalmente, niente avvenne di nascosto – si legge nella testimonianza di Salvatore Mancuso – loro (i militari regolari, ndr) sapevano ogni cosa, l’omissione fu una scelta deliberata. Tutto fu fatto in coordinamento con loro, era una richiesta che ci facevano dal 1996”.

 

Solo Domenico Mancuso conosce i dettagli delle riunioni inconfessabili con politici e poliziotti, i piani che portarono le Auc a occupare vaste zone del territorio con cessione di armi, munizioni e tantissimi soldi. Chissà se è per questo che l’altroieri, davanti a un giudice di Genova, ha chiesto di non essere estradato.

 

Suo cugino, Salvatore, ha già rivelato che “fin dal 2001 noi capi paramilitari cominciammo a tenere riunioni nelle quali decidemmo di appoggiare Alvaro Uribe (presidente della Colombia dal 2002 al 2010, ora senatore, ndr) sia in forma attiva che passiva”. Ha raccontato di avere ricevuto richieste “dall’esercito venezuelano di collaborare all’organizzazione di un colpo di stato contro il presidente Hugo Chávez, ma noi ci rifiutammo”. Frase a cui si rifanno tuttora molte delle denunce di Caracas di piani di golpe con coinvolgimento di paramilitari colombiani. Il presidente venezuelano Nicolás Maduro è ferratissimo in materia, da quando l’hanno eletto, un anno e mezzo fa, denuncia un attentato sventato al mese.

 

Salvatore Mancuso si è detto responsabile personalmente di 300 omicidi, compreso quello di una bambina di 22 mesi, nipote di un sindacalista dell’Università di Córdoba. E ha addirittura tirato in ballo l’allora ministro della Difesa del governo Uribe e ora presidente della Repubblica, Juan Manuel Santos, accusandolo di aver partecipato a due riunioni con lui e con Carlos Castaño, altro capo paramilitare. Vai a sapere quel che c’è di vero.

 

Fatto sta che suo cugino Domenico, con queste premesse di storie inenarrabili solo annunciate e un capitale in nero da gestire, probabilmente non solo suo, è ora guardato a vista nel carcere di Marassi.

 

Quando l’hanno preso, mercoledì, era insieme al figlio di Salvatore, Gianluigi Mancuso. Fermato anche lui, poi rilasciato.
Di fronte alla notizia del blitz con copertura dal cielo degli elicotteri e un nugolo di agenti incappucciati, è rimasto di stucco anche don Giorgio Marchesini, il parroco di Santa Maria Maggiore a Castelvecchio di Imperia. “Era una persona che si è sempre comportata correttamente – è la sua reazione stupita riportata dalla cronaca locale –  frequentava la chiesa quasi quotidianamente, pregava in maniera molto più devota di tanti altri e faceva la comunione tutte le volte che partecipava alla messa. Sempre disponibile a partecipare alle celebrazioni liturgiche. Portava anche le torce alle processioni mariane”.

Di più su questi argomenti: